Verso il Sinodo sull'Amazzonia. L'esodo degli indios nella miseria di Manaus
Dal 2014, l’esodo è aumentato ma niente è stato fatto per integrarli. «La nostra presenza non è riconosciuta, siamo invisibili». Il porto fluviale sul Rio Negro a Manaus: sulle acque si affacciano le bidonville
Silenzi, distese d’acqua argentata, lembi di terra coperti da una vegetazione fitta e scura. Dalla barca cullata dalle onde pigre del Rio Negro, Manaus in lontananza appare un enorme villaggio fluttuante in balia del sali-scendi delle acque. Voltato più in là lo sguardo, tre chilometri e mezzo di alta ingegneria costati più di un miliardo di reais sbucano dai grattacieli e si slanciano ad arco sul fiume per poi gettarsi nel mezzo della foresta pluviale. Guardi l’assurdo ponte e t’accorgi di trovarti proprio a lato del simbolo di quel potere economico che impone l’irruzione nei confronti degli ecosistemi naturali a danno del bene comune e che è alla base di tutte le contraddizioni dell’Amazzonia. Te ne convinci sempre più mentre, avvicinandoti alla sponda, s’innalzano, parandosi davanti una dietro l’altra, le sedi degli stabilimenti di società di telecomunicazioni, diversi impianti di raffinazione del petrolio della Petrobras, stabilimenti chimici e industrie per la produzione di autoveicoli.
Perché Manaus è l’altra faccia dell’Amazzonia: la metropoliturbo, isola di due milioni e mezzo di abitanti che continua a crescere a una velocità vertiginosa. Alimentata dalle grandi multinazionali, venute a produrre qui a ritmo frenetico perché attratte dai vantaggi della zona franca, creata dai generali della dittatura negli anni Settanta, quando, anche allora, chi aveva il potere faceva con gli affari il bello e il cattivo tempo in questa parte vitale del mondo. E il vecchio “Porto de lenha”, con la sua giungla di pescivendoli sudati che spellano pirarucù di quaranta chili e fruttivendoli curvi sotto giganteschi caschi di banane, è il biglietto da visita di questa città bollente d’umidità inquinata, che una volta dentro mostra i suoi contrasti imponenti. Dai grattacieli fastosi alle baracche senza soluzioni di continuità, soffrendo di violenza e di quel triumvirato delle piaghe urbane croniche che sono il traffico caotico, la pianificazione inesistente, l’estrema povertà. Quella ingombrante delle sterminate favelas che ti vengono incontro appena fuori dalla via principale del centro, l’Avenida Edoardo Ribeiro, costruita sul cimitero dei Manaos, l’ormai estinta etnia originaria. E così oggi la capitale dello Stato di Amazonas con le sue attuali favelas a farle da corona è soprattutto l’emblema del modello di uno sviluppo votato a quel falso dio che pretende sacrifici umani, producendo scarti e invisibilità. In particolare quella dei più vulnerabili: i popoli indigeni. Per incontrali bisogna scendere.
Negli “aglomerados subnormais”, come l’Istituto statistico brasiliano chiama le 50 aree della capitale dove si sopravvive riciclando spazzatura. Una strada di terra rossa dissestata dalle buche e dall’immondizia è il confine. Spunta dall’asfalto per poi precipitarsi in un avvallamento di fatiscenti baracche. Passa davanti a una lamiera con scritto “Comercio 3 irmãos picole” dietro una bambina affacciata dal buio di una finestra scrostata. E si deve andare ancora più giù per arrivare al fango di quest’insuperabile povertà lambita da una ricchezza che compra uomini, donne e bambini. Perché la favela di Sol Nascente è in fondo a questo fondo. E adesso anche habitat per 46 famiglie indigene di 11 etnie diverse emigrate dall’interno dello Stato. Costrette a lasciare le loro terre d’origine insieme all’ondata dei 36mila migranti che ogni anno si riversano nella capitale in cerca di migliori condizioni di vita. Dall’ombra di una rabbrecciata tettoia d’amianto, con il copricapo del suo popolo Desano, Domingo Savio Vieria Carvalho invita ad entrare. Ha 45 anni e viene da São Gabriel da Cachoeira, un comune a più di ottocento chilometri a nordest di Manaus, nell’Alto Rio Negro. È qui con sua moglie Claudina e la figlia ventiduenne Dhyerllem, che tiene in braccio il suo bambino, anche lui con la faccia colorata dei disegni tradizionali. «Sono i segni della nostra dignità», dice Domingo, facendo largo attraverso grandi foglie di palma tagliate e cappelli di paglia messi a trattenere le sue origini sugli assi di legno della nuova capanna. Domingo racconta come ha dovuto lasciare la sua terra invasa dagli allevatori di bestiame per venire qui, e dice che la mancanza di salute e d’istruzione spingono la gran parte dei popoli originari nella capitale.
Accanto, Veronica Campos Margues avrebbe voluto studiare, ha 22 anni e lo sguardo fiero dell’etnia guerriera Mura. «Noi esistiamo: io voglio dire al mondo che siamo vivi e che vogliamo essere rispettati come persone e in quanto popolo», ripete Dhyerllem, mentre il figlio in braccio le tira con la bocca la collana di semi. Marcivana Sateré Mawé è il riferimento per la Coordinacão dos Povos Indigenas (Copime), la prima organizzazione in Brasile ad occuparsi degli indigeni nel contesto urbano. «Nello Stato Amazonas si concentra il maggior numero dei 225 diversi gruppi indios del Brasile, si parlano 53 lingue – spiega – L’esodo forzato degli indios verso Manaus è iniziato negli anni Settanta. Dal 2014 si è molto intensificato. Oggi il 52 per cento degli indigeni dello Stato si trovano nella capitale». Sono 45mila, secondo il Dsei-Manaus, il distretto sanitario indigeno di Manaus. La città annienta così le loro culture e inghiotte nel pozzo nero dell’indigenza e dell’alienazione le loro vite violentate, le loro identità calpestate. E oggi la questione dei popoli indigeni nel contesto urbano è destinata a diventare una realtà brutale che non può più essere nascosta. «Il non riconoscimento di questa presenza – dice Marcivana – nega i nostri diritti nella città: siamo diventati invisibili». Ed è questo il programma di un nuovo pianificato sterminio.
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(4. Fine. Le precedenti puntate, firmate da Lucia Capuzzi, sono state pubblicate il 6, 10 e 21 luglio)