Progetti. Uno stress test per l'Amazzonia: alla prova il polmone della Terra
La foresta amazzonica è davvero il polmone del pianeta? Fermo restando che l’espressione, simbolicamente efficace, è tecnicamente sbagliata perché un polmone assorbe ossigeno e rilascia anidride carbonica, esattamente il contrario di quanto fa un albero, la risposta è: lo sapremo con precisione tra qualche anno. Grazie al progetto Amazon Face, lanciato recentemente dall’università Unicamp di Campinas, nello Stato di San Paolo, e cofinanziato dal Ministero dell'Innovazione brasiliano e dal governo britannico, che contribuisce con circa 10 milioni di dollari sugli 80 milioni totali, saremo in grado nel 2034 di misurare con esattezza quanta CO2 è in grado di catturare la foresta pluviale più estesa del pianeta. Come? Attraverso una sorta di stress test.
Si tratterà praticamente di installare sedici maxi torri di 30 metri di diametro e 35 metri di altezza nel cuore della foresta, che circoscriveranno un’area ben definita che verrà “bombardata” di anidride carbonica. L’obiettivo, ambizioso, è di vedere come reagisce l'ambiente allo stimolo e calcolare precisamente quante particelle di CO2 assorbiranno quegli alberi, trasformandola in ossigeno attraverso il processo della fotosintesi. Precedenti studi analoghi, condotti però in foreste di climi temperati e non tropicali, hanno dimostrato un aumento significativo della produzione di biomassa da parte delle piante sollecitate. Ma, avverte David Lupola, uno dei coordinatori del progetto, «questo non deve trarre in inganno perché quella crescita non fu continua e perché Amazon FACE sarà realizzato in un’area – rappresentativa come caratteristiche del 60% dell’Amazzonia – povera di fosforo, che è un fattore essenziale al processo».
L’innovativo esperimento consentirà anche di capire come si comporteranno le piante simulando uno scenario estremo ma che nel tempo è destinato a diventare sempre di più la normalità, ovvero la sovrabbondanza di anidride carbonica nell’atmosfera. L’Onu infatti, nella maggior parte dei modelli realizzati dall’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), considera le foreste tropicali come luoghi di assorbimento di CO2 « permanenti », ma non è scritto da nessuna parte che sarà così e anzi Lupola non esclude che questa previsione possa rivelarsi sovrastimata: « Amazon FACE dimostrerà molto probabilmente che la funzione della foresta è invece dinamica, e potrà dare indicazioni utili per individuare il punto di non ritorno, cioè il momento in cui il bioma, in seguito al disboscamento e ai cambiamenti climatici, cambierà per sempre, smettendo di essere foresta pluviale ed entrando nel processo di “savanizzazione”».
Il valore aggiunto della tecnologia FACE, che sta per “Free- Air CO2 Enrichment” e viene usata per la prima volta in un contesto con una tale biodiversità, è la capacità di rilevare con precisione la risposta dell’ecosistema. Le 16 torri disposte a forma circolare saranno collegate a un serbatoio di stoccaggio di CO2 liquida, che all’interno dell’area delimitata manterrà la concentrazione atmosferica di CO2 al 50% al di sopra delle attuali concentrazioni per così dire normali di CO2 (~400 + 200 parti per milione di volume). I sensori posizionati sulle strutture controlleranno il rilascio di aria arricchita di CO2 in base alla velocità e alla direzione del vento. Sopra ognuna delle torri verrà posizionata una gru alta 45 metri, che avrà l'importantissima funzione di fornire ai ricercatori l’accesso alla chioma degli alberi per effettuare misurazioni e studi. Il progetto arriva in un momento particolare per la salute del cosiddetto polmone del pianeta, il cui destino sembra sempre più a rischio.
Di buone notizie ce ne sono poche: una di queste è che quest’anno la deforestazione è diminuita del 22% rispetto al 2022, ultimo anno di governo Bolsonaro. Se si proseguirà su questo ritmo, il Brasile potrebbe riuscire ad onorare gli impegni presi alla COP21 di Parigi, ovvero di limitare le sue emissioni a 1,32 gigatonnellate di CO2 nel 2025. Ma allo stesso tempo proliferano le notizie meno buone. La rielezione di Lula ha rassicurato la comunità internazionale sul tema dell’Amazzonia, ma il suo impegno è ancora ritenuto insufficiente, anche perché talvolta ambiguo. L’economia del Brasile è sempre più legata all’agrobusiness e dunque alle attività di deforestazione, che sia per gli allevamenti bovini o per le coltivazioni di soia, di cui il Paese sudamericano è il primo esportatore al mondo, soprattutto in direzione Cina, e sulla quale lo stesso governo sta puntando molto per quanto riguarda le politiche green sui biocarburanti. Questi non sono dettagli, se si pensa che il 60% della foresta è in territorio brasiliano, che gli habitat naturali del Brasile rappresentano circa il 15-20% della diversità biologica mondiale e che la deforestazione è oggi responsabile dell’11% delle emissioni globali.
Alla luce di questi numeri, è ancora più deludente ricordare che l’ultimo vertice tra gli otto Paesi membri dell’Amazon Cooperation Treaty Organization (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela), tenutosi a Belem lo scorso 10 agosto, si sia praticamente concluso con un nulla di fatto, e che un leader progressista come Lula stia chiudendo un occhio di fronte all’intenzione di Petrobras, il colosso nazionale dell’energia (lo Stato è azionista di maggioranza con il 50,3%), di estrarre ancora petrolio nel bacino del Rio delle Amazzoni, mettendo in pericolo un intero ecosistema. Nel frattempo, il clima presenta già il conto: una delle più grandi riserve d’acqua del pianeta sta proprio in queste settimane affrontando una siccità senza precedenti, a causa dell’anticiclone El Nino che ormai da 2 anni staziona sull’America Latina, provocando proprio in Brasile ondate di caldo da record, al punto che a Rio de Janeiro durante il recente concerto di Taylor Swift la temperatura percepita è stata di 60 gradi e una ragazza di 23 anni è morta. Le immagini dal satellite non lasciano spazio ad interpretazioni, mostrando chiaramente la scomparsa di interi affluenti del Rio delle Amazzoni, il che mette a rischio la sopravvivenza delle popolazioni indigene ma anche un intero sistema economico: secondo la Associação de Defesa Etnoambiental, dalla sopravvivenza dell’Amazzonia e dalle sue piogge dipende il 75 per cento del Pil di tutto il Sudamerica.