Neuroscienze e spazio esterno. Se l'architettura trascura le esigenze dell'uomo
'Neuroscience Applied to Architectural Design': dal 2017 studenti e docenti provenienti da tutto il mondo giungono in laguna per frequentare, presso l’Università Iuav di Venezia, NAAD, il corso annuale rigorosamente in inglese, rivolto a formare architetti specialisti in neuroscienze e psicologia ambientale. Nella progettazione, consulenza e ricerca sono sempre più le opportunità aperte a queste specifiche figure professionali, di cui si registra un curioso dato: dei 36 iscritti delle ultime due edizioni ben 32 sono state donne. Ma da quale esigenza nasce, e cresce, l’attenzione al rapporto tra neuroscienze e spazio esterno? Quale segnale ci restituisce e perché intercetta soprattutto la sensibilità femminile? Davide Ruzzon, fondatore del master, ricorre ad una metafora per descrivere processi e metodi con cui operano da circa un secolo l’industria delle costruzioni e gli amministratori: «L’agnosia visiva è una condizione limite, conseguente a incidenti, menomazioni o patologie neurologiche, che si manifesta nell’incapacità di riconoscere e rappresentare elementi familiari. Come dimostrò il noto esperimento di Bisiach e Luttazzi del 1978, a Piazza del Duomo a Milano, è come se nel campo visivo dei soggetti interessati non rientrasse metà del mondo circostante: una metà che diventa invisibile» Intende che, guardando alle nostre città, l’attenzione e la capacità descrittiva e di intervento di chi le concepisce e costruisce si esaurisce nella realizzazione di edifici, impianti e infrastrutture?
«La dimensione legata alle persone non è solo trascurata: non è proprio colta. Eppure, senza le comunità di individui non avremmo né edifici, né città. Nonostante questo, le ragioni che muovono a costruire, ovvero i bisogni delle persone, non vengono riconosciuti. Da oltre un secolo, la cura per le costruzioni si è tradotta prima in termini di igiene, poi di efficienza e funzionalità (ad esempio, tecnologiche), poi ancora di sicurezza statica e, infine, di prestazione energetica. Tutti obiettivi condivisibili, ma dell’uomo non c’è traccia. Il radar dei decisori non rileva le esigenze da cui genera l’architettura. Anche quando si cerca di realizzare una bella opera, un malinteso imperialismo oculocentrico trasforma lo spazio di vita delle persone in oggetto di contemplazione». Sempre architettura autonoma, con un percorso distinto dal pulsare della vita e indipendente da esso: saranno le neuroscienze e la psicologia ambientale a guarire dall’agnosia la filiera del costruito? «Lo spazio costruito è nato solo dodici mila anni fa, alla fine di un lungo processo evolutivo durato due milioni di anni. L’invenzione è stata generata dalla necessità di trasferire rituali ed attese emotive nella forma definita del-l’architettura, affinché questa facesse da memoria e testimone dei legami socio-culturali degli antenati. I modelli percettivi con i quali costruire non sono mai stati disgiunti, e non sono separabili, dal nostro abitus mentale. Ecco, le neuroscienze oggi ci permettono di misurare la fragilità delle costruzioni rispetto all’esperienza umana. Edifici, quartieri ed infrastrutture –apparentemente solide, funzionanti ed energeticamente efficienti – generano tuttavia senso di precarietà, sono fonte di ansia, stress e perfino depressione. Questo perché i luoghi non sono più concepiti per custodire i bisogni umani, non ne sono espressione e, dunque, non li soddisfano» Le scienze hanno da tempo evidenziato come il cervello non sia per nulla confinato nella scatola cranica: è perfettamente integrato con il corpo, con cui forma un’unica entità. «Nel mondo l’uomo ha esplorato lo spazio grazie al suo meraviglioso ingranaggio: oltre alla vista, i muscoli, la postura, l’articolazione dello scheletro, la pelle, il suono, gli odori. La lunghissima memoria di questo scambio con le forme naturali dello spazio, infinitamente ripetuto, ha generato la coscienza».
Antonio Damasio, durante la Lectio Magistralis al master NAAD, spiegherà che sono proprio queste memorie del corpo, i sentimenti, ad aver generato la conoscenza dei propri stati fisici e dello spazio. Sensazioni che si sono 'inspessite', irrobustite, fino a trasformarsi in concetti e strumenti di comunicazione. «L’invenzione dell’architettura ha reso stabile e facilmente ripetibile quel che gli esseri umani hanno esperito in milioni di anni, è stata una straordinaria palestra cognitiva. Infatti, dalla sua comparsa, la Rivoluzione Neolitica, iniziata circa 9000 anni a.C, ha portato in un battito di ciglia alla scrittura e allo sviluppo delle città. Il patrimonio di relazioni affettive donato dagli schemi naturali primigeni è stato rielaborato, spesso anche abusato, nel corso della storia. Il senso di rilassamento, o di attivazione, prodotto dalla traduzione di cinematismi di contrazione, o di espansione del corpo, come, ad esempio, il senso di leggerezza innescato dal salto, combinati insieme, hanno caratterizzato parte dello sviluppo dell’architettura ». Anche la sensazione di stupore ha permeato gli spazi della rappresentazione pubblica, purtroppo a volte anche per esaltare un potere politico interessato ad essere associato ad un senso di immanenza. «Quello che abbiamo visto accadere, però, dalla Rivoluzione Industriale, in particolare dalla seconda metà del XX Secolo, è stato il progressivo annichilimento di ogni traccia di questa ancestrale relazione tra sentimenti e forme dello spazio. Paradigmi assoluti del progetto oggi sono efficienza economica, flessibilità, efficienza, produttività, potere. Tutto il nostro concepire e realizzare è finalizzato ad un unico schema e assume un solo profilo. Nelle forme dello spazio non c’è più, o quasi, alcuna traccia della memoria corporea dei sentimenti».