Statuto dei lavoratori 50 anni. Ichino: Formazione e servizi le vere tutele che servono
Il giuslavorista Pietro Ichino
«Così la Costituzione è entrata nelle fabbriche». L’approvazione cinquant’anni fa, il 20 maggio 1970, della legge 300, meglio nota come lo "Statuto dei lavoratori" ha segnato almeno due epoche. Ha chiuso, portandoli a compimento, decenni di lotta per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, facendo – come si disse allora – entrare la democrazia nelle fabbriche. Rendendo, almeno le grandi imprese, non più luoghi di mero sfruttamento della forza lavoro. E ne ha aperta un’altra di epoca, per l’Italia, nella quale, dopo la spinta "anarchica" dello sviluppo impetuoso degli anni ’50 e ’60, i rapporti di lavoro potevano contare appunto su regole certe per evolversi. La spinta alla stesura dello Statuto si deve al ministro socialista Giacomo Brodolini, coaudiuvato dal giuslavorista Gino Giugni. L’approvazione finale al ministro democristiano Carlo Donat-Cattin che raccolse il testimone di Brodolini morto nel luglio 1969. Fin da subito si parlò di un irrigidimento eccessivo, addirittura di una legislazione contro l’impresa. Di certo, però, ai dipendenti quella legge ha garantito, come recita il sottotitolo, «libertà e dignità». Durante gli ultimi decenni del Novecento, lo Statuto ha subito diverse modifiche. Ma a farlo apparire "invecchiato" sono soprattutto i cambiamenti epocali degli assetti economico-produttivi e l’esigenza di tutelare tutte le forme di lavoro, non più solo quelle delle grandi imprese industriali. E allora serve un nuovo Statuto dei lavori, di tutti i lavori, o che cos’altro? Cinquant’anni dopo il dibattito è tanto aperto quanto urgente. Ne discutiamo con il giuslavorista Pietro Ichino, già parlamentare Pd (qui di seguito), e il presidente del Cnel Tiziano Treu, già ministro del Lavoro nei governi Dini e Prodi.
Pietro Ichino, lo Statuto dei lavoratori resta ancora oggi un baluardo imprescindibile per la tutela dei diritti dei lavoratori? O è diventato obsoleto e finisce per pesare come una zavorra sull'evoluzione del sistema economico e del mercato del lavoro?
Nonostante che fosse stato qualificato come "legge mal fatta" - risponde Pietro Ichino -, lo Statuto era ed è rimasto un testo legislativo esemplare per chiarezza e semplicità, quindi per efficacia: 41 articoli brevi, immediatamente leggibili e comprensibili da chiunque. Tant’è vero che venne diffuso in milioni di copie dalle associazioni dei lavoratori e degli imprenditori in ogni angolo del Paese, e nel giro di due o tre mesi milioni di lavoratori e imprenditori furono in grado di capire la nuova disciplina delle mansioni, dei trasferimenti, delle visite mediche, dei permessi sindacali e così via. Fu così che questa legge cambiò la cultura del lavoro nel nostro Paese. Venne riconosciuto il "diritto alla riservatezza" del lavoratore – la privacy anglosassone –: espressione che venne usata qui, in questo significato tecnico, per la prima volta nella legislazione italiana. Inoltre lo Statuto conteneva in nuce, nell’articolo 28, una riforma del processo del lavoro, che sarebbe stata poi portata a compimento nel 1973, assicurando tempi rapidi alle cause del lavoro e conferendo ai magistrati gli strumenti necessari per rendere effettivi i diritti istituiti dalla legge: questa avrebbe meritato di essere assunta come modello per una riforma generale del processo civile. Certo, del contenuto originario dello Statuto è rimasta intatta solo la parte dedicata alla garanzia dei diritti fondamentali della persona nelle aziende. Tutto il resto è stato modificato e in parte – quella sul collocamento – del tutto abrogato. Ma questo era inevitabile.
Di quale aggiornamento avrebbe bisogno per tutelare meglio tutti i lavoratori? Serve uno Statuto dei lavori o cosa altro?
Oggi dobbiamo domandarci di che cosa c’è bisogno per una protezione del lavoro aggiornata al XXI secolo. Se una critica può essere mossa allo Statuto del 1970, è quella di aver fatto propria una strategia di protezione interamente centrata sulla tutela degli interessi della persona nel rapporto, trascurando del tutto i servizi nel mercato del lavoro. Nell’era dell’automazione, dell’intelligenza artificiale e della globalizzazione, nella quale il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate è diventato rapidissimo, una vera sicurezza economica e professionale delle persone può essere data soltanto da una rete capillare ed efficiente di servizi di informazione, orientamento, formazione, assistenza alla mobilità. È la formazione efficace il vero "articolo 18" del XXI secolo. Si obietta anche che se il lavoro manca, questi servizi servono a poco. Ma in Italia alla fine del 2019 venivano censite un milione e duecentomila situazioni di skill shortage, cioè posti di lavoro che rimanevano permanentemente scoperti per mancanza di persone capaci di ricoprirli. Non era dunque il lavoro che mancava, almeno nel Centro-Nord, bensì i percorsi per far incontrare domanda e offerta, per consentire a centinaia di migliaia di persone di rispondere alla fame di personale qualificato e specializzato delle imprese.
Qual è il futuro del diritto del lavoro: poche leggi essenziali e massimo spazio alla contrattazione?
Proprio guardando a 50 anni fa si può osservare come lo Statuto sia stato varato dopo uno scontro duro tra gli "interventisti" e i contrari all’intervento legislativo: tra questi ultimi soprattutto la Cisl, che diceva "il nostro statuto è il contratto". La Cisl paventava che l’equilibrio negoziale raggiunto tra lavoratori e imprenditori, sulla base del loro interesse comune, potesse essere spiazzato dall’oscillare degli equilibri politici influenzati dai conflitti ideologici. Temeva le norme che nascevano fuori dal sistema delle relazioni industriali. Dalla seconda metà degli anni ’70 in poi le preoccupazioni della Cisl hanno incominciato a rivelarsi fondate: da allora la produzione legislativa è diventata sempre più ipertrofica, illeggibile, volatile e quindi inaffidabile. L’esigenza di proseguire nella semplificazione avviata col Jobs Act è ancora attualissima.