Santa Sede-Cina. Sull'accordo anche domande e critiche
All’indomani dello storico accordo tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese si dice che qualcuno sia tornato a parlare di “indipendenza” per la Chiesa cattolica in Cina. Un anonimo portavoce dell’Associazione patriottica cinese avrebbe detto che, insieme all’applicazione dell’accordo, «sosterremo la buona tradizione di amare il Paese e la Chiesa, il principio di gestire la Chiesa in modo indipendente, la direzione della sinizzazione e il percorso di adattamento a una società socialista». In realtà, per avere commenti ufficiali bisogna aspettare l’incontro dei vertici della Conferenza episcopale e dell’Associazione patriottica che si terrà domani a Pechino. Ma è possibile che qualcuno abbia detto parole come queste e, soprattutto, che vi sia un qualche malcontento. Come in campo cattolico, anche in campo cinese non tutti hanno visto bene quest’intesa: da un accordo al massimo livello, infatti, i poteri di chi si muove ad un livello inferiore risultano sempre ridimensionati.
Tale malcontento trova un’espressione opposta ma speculare in quanti, nel mondo cattolico, continuano a parlare di un’intesa che “svenderebbe” la Chiesa in Cina. Anche in questo caso c’è qualcuno che perde una quota di potere. Sono posizioni opposte che convergono però, in modo singolare, nel criticare l’accordo. Ma queste critiche, in un certo senso, si rispondono l’un l’altra e finiscono per annullarsi a vicenda. Se c’è chi sia da parte cinese sia da parte cattolica lamenta una perdita di controllo, vuol dire che difficilmente una delle due parti è prevalsa nettamente sull’altra.
A ben vedere, insomma, sono critiche che involontariamente confermano la validità e l’importanza dell’intesa, anche se nell’immediato contribuiscono ad avvolgerla in una nube di oscurità. È una nube che molti commentatori internazionali hanno aiutato poco a dissipare. Troppo a lungo adagiati sulla narrazione di cattolici cinesi “clandestini” fedeli al Papa contro cattolici cinesi “patriottici” appiattiti sul governo e viceversa, non sanno ora come spiegare che molti clandestini non sono contro il governo e nessun patriottico è contro il Papa. Dopo aver raccontato che i cattivi “politicanti” correvano dietro ad un accordo a qualunque costo mentre i veri “devoti” fermavano tutto per difendere i principi, sono spiazzati dal fatto che proprio i primi hanno compiuto un passo decisivo per la Chiesa in Cina. Molti hanno finito per perdersi in analisi impossibili del contenuto di un accordo che nessuno conosce perché rimasti riservati.
A posteriori si capisce meglio il motivo di tale riserbo. In un accordo limitato nel tempo, ad experimentume che fin dall’inizio si dichiara passibile di adattamenti, ciò che conta davvero non sono i contenuti ma la volontà delle due parti di andare avanti insieme. Inutile rivelare dettagli che farebbero gridare allo scandalo questo o quello, quando sono dettagli che possono essere modificati, di comune accordo, dall’oggi al domani. Del resto, sono anni che – seppure con burrascose interruzioni – prosegue una prassi di “riconoscimenti paralleli” per cui le autorità cinesi hanno indicato vescovi graditi a Roma e viceversa. L’accordo, insomma, è storico non per i suoi contenuti ma per le firme congiunte del viceministro Wang Chao e di monsignor Antonie Camilleri.
A disorientare i commentatori ha contribuito indirettamente il low profile comunicativo della Santa Sede nel dare la notizia: uno scarno comunicato della sala stampa vaticana, mentre gli occhi di tutti erano concentrati sul viaggio di papa Francesco e del suo segretario di Stato in Lituania. Ma se non spetta alla Santa Sede enfatizzare i risultati raggiunti, è dovere di chi li commenta darne una valutazione adeguata. È vero infatti che l’accordo persegue uno specifico obiettivo ecclesiale, ma i suoi riflessi sono più ampi e vanno in molte direzioni.
Accettando di favorire la riconciliazione dei cattolici cinesi con il Papa e tra loro, le autorità di Pechino hanno aperto la strada all’ingresso dell’universalismo cattolico in Cina. Hanno cioè riconosciuto l’esistenza di questo singolare universalismo religioso, morale e culturale, non l’hanno considerato lesivo della sovranità nazionale cinese e anzi hanno ritenuto che può portare beneficio al loro Paese. Non è un accordo di potere: i cinesi non l’avrebbero sottoscritto.
È, al contrario, un sorprendente riconoscimento che anche le forze spirituali hanno un peso nella storia. La Chiesa cattolica, così, è entrata in Cina dalla porta principale: in qualche modo si ripete, quattro secoli dopo, la parabola di Matteo Ricci che, dopo un viaggio lungo e durissimo, si stabilì a Pechino con il permesso imperiale.