Chiesa

Vescovi contro ogni discriminazione. Omofobia, non serve una nuova legge

Luciano Moia mercoledì 10 giugno 2020

Nessun vuoto normativo per assicurare alle persone omosessuali la tutela contro maltrattamenti, violenze, aggressioni. Il nostro codice penale dispone già degli strumenti necessari per garantire in ogni situazione il rispetto della persona. È quanto ribadiscono i vescovi italiani a proposito dei disegni di leggi attualmente in discussione alla Commissione Giustizia della Camera. Si tratta di cinque ddl (Boldrini, Zan, Scalfarotto, Perantoni, Bartolozzi) che puntano a modificare agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere. Obiettivo più che condivisibile visto che, come afferma papa Francesco in Amoris laetitia (n.250), “nessun persona dev’essere discriminata sulla base al proprio orientamento sessuale”. Ma, come spiegano bene i vescovi della presidenza della Cei, c’è il rischio concreto che queste proposte si traducano in confusione normativa e possibilità di nuove discriminazioni verso coloro che non si allineano al cosiddetto “pensiero unico”. Quindi, con l’obiettivo di porre rimedio a un’ingiustizia, si rischia di innescarne di nuove, altrettanto gravi e odiose.

Il primo punto messo in luce da tutti i ddl è quello del vuoto normativo. Indispensabile, si dice, varare una nuova normativa che, si spiega nel ddl di cui è primo firmatario Alessandro Zan (Pd) prevede un allargamento della cosiddetta legge Mancino (n.205 del 1993) con l’obiettivo “di estendere le sanzioni già individuate per i reati qualificati dalla discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi anche alle fattispecie connesse all’omofobia e alla trans fobia”. Ma è davvero necessario? Il nostro codice già prevede sanzioni proporzionate alla gravità del reato per i delitti contro la vita (art. 575 e ss. cod. pen.), contro l’incolumità personale (art. 581 ss. cod. pen.), i delitti contro l’onore, come la diffamazione (art. 595 cod. pen.), i delitti contro la personalità individuale (art. 600 ss. cod. pen.), i delitti contro la libertà personale, come il sequestro di persona (art. 605 cod. pen.) o la violenza sessuale (art. 609 ss. cod. pen.), i delitti contro la libertà morale, come la violenza privata (art. 610 cod. pen.), la minaccia (art. 612 cod. pen.) e gli atti persecutori (art. 612-bis cod. pen.). Fino al 2016 l’ordinamento ha ritenuto illecita anche la semplice ingiuria (art. 594 cod. pen.).

Ma c’è un altro assioma, presente in tutti i ddl, che sembra ampiamente discutibile, quello dell’emergenza omofobia. Secondo i dati diffusi dal ministero degli Interni, negli ultimi otto anni, i reati riferibili all’orientamento sessuale e all’identità di genere, sarebbero solo 212, in media 26,5 ogni anno. Condizionale d’obbligo viste le considerazioni che arrivano dai sostenitori dei vari ddl, secondo cui proprio la mancanza di norme specifiche impedisce la classificazione dei reati. E anche su questo gli esperti di diritto penale sono discordi.

Come altrettanto complesso appare districare la complessa questione legata ai contenuti di espressioni come “identità di genere” e “orientamento sessuale”. Quando si parla di discriminazioni per motivi di razza, provenienza geografica, etnia, religione siamo di fronte a concetti largamente condivisi, che non offrono la possibilità di equivocare. Sull’orientamento sessuale e, soprattutto sull’identità di genere ci troviamo a confrontarci con concetti tutt’altro che definiti in modo stabile e univoco. Quanto è opportuno allora inserire in una legge penale – che per sua natura ha necessità di riferimenti certi – concetti di cui psicologia e antropologia dibattono da decenni senza arrivare a un piattaforma concettuale definita? Il rischio è effettivamente elevato. Ci sono anche studiosi della stessa area lgbt secondo cui il triplice riferimento all’orientamento, all’identità e al ruolo non possono esaurire la complessità della sfera sessuale e, soprattutto, il suo rapporto con la realtà sociale e culturale. Possibile allora che l’obiettivo di sanzionare le discriminazioni basate su concetti fluttuanti come identità di genere e orientamento sessuale finiscano per punire, oltre che i fatti concreti, le legittime opinioni di chi non si allinea al cosiddetto “pensiero unico”? Per essere più chiari: sostenere, per esempio, che le unioni omosessuali sono scelta ontologicamente e biologicamente diversa rispetto al matrimonio fondato sul matrimonio tra uomo e donna, potrebbe diventare opinione sanzionabile? E sottolineare che la tesi della “nessuna differenza” tra gli esiti psicologici-esistenziali mostrati dai figli che vivono all’interno di famiglie gay rispetto a quelli che vivono e crescono con i propri genitori biologici, eterosessuali, potrà diventare atto d’accusa?

I sostenitori dei ddl in discussione alla Commissione Giustizia della Camera escludono queste derive. E speriamo che si tratti di convinzioni sincere. Purtroppo nei Paesi dove legislazioni simili a quelle che si vorrebbero adottare anche in Italia sono già vigenti, i giudici si sono mossi in modo diverso. In Spagna, il 6 febbraio 2014, il cardinale Fernando Sebastián Aguilar (morto di recente), arcivescovo emerito di Pamplona, è stato iscritto nel registro degli indagati per “omofobia” per aver rilasciato un’intervista pubblicata sul quotidiano di Malaga, “Diario Sur” il precedente 20 gennaio, nel corso della quale, sulla premessa che la sessualità è orientata alla procreazione, faceva presente che all’interno di una relazione omosessuale tale finalità era preclusa. In Francia, dove una legge del 2004 sanzionava le discriminazioni razziali (sul modello italiano della legge Mancino – Reale) prima nel 2008, poi nel 2012 quelle disposizioni sono state estese alla discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, grazie all’iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca Christiane Taubira. Esempi che non dovrebbero essere dimenticati.

C’è invece un percorso vincente, sottolineano ancora i vescovi, per combattere violenza e intolleranza contro chiunque, e soprattutto verso le persone più fragili, ed è l’impegno educativo finalizzato ad attivare seri percorsi di prevenzione. Su questo punto il dibattito è aperto e la disponibilità della Chiesa italiana è rivolta a “un confronto aperto e intellettualmente onesto”. Nessuna preclusione quindi, nessuna chiusura, ma un atteggiamento di accoglienza e misericordia secondo quel modello di Chiesa in uscita più volte sollecitato dal papa Francesco.

Ecco il testo del comunicato della presidenza Cei

“Nulla si guadagna con la violenza e tanto si perde”, sottolinea Papa Francesco, mettendo fuorigioco ogni tipo di razzismo o di esclusione come pure ogni reazione violenta, destinata a rivelarsi a sua volta autodistruttiva. Le discriminazioni – comprese quelle basate sull’orientamento sessuale –costituiscono una violazione della dignità umana, che – in quanto tale – deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni. Trattamenti pregiudizievoli, minacce, aggressioni, lesioni, atti di bullismo, stalking... sono altrettante forme di attentato alla sacralità della vita umana e vanno perciò contrastate senza mezzi termini. Al riguardo, un esame obiettivo delle disposizioni a tutela della persona, contenute nell’ordinamento giuridico del nostro Paese, fa concludere che esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio. Questa consapevolezza ci porta a guardare con preoccupazione alle proposte di legge attualmente in corso di esame presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati contro i reati di omotransfobia: anche per questi ambiti non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni. Anzi, un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui – più che sanzionare la discriminazione – si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione, come insegna l’esperienza degli ordinamenti di altre Nazioni al cui interno norme simili sono già state introdotte. Per esempio, sottoporre a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma – e non la duplicazione della stessa figura - significherebbe introdurre un reato di opinione. Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso. Crediamo fermamente che, oltre ad applicare in maniera oculata le disposizioni già in vigore, si debba innanzitutto promuovere l’impegno educativo nella direzione di una seria prevenzione, che contribuisca a scongiurare e contrastare ogni offesa alla persona. Su questo non servono polemiche o scomuniche reciproche, ma disponibilità a un confronto autentico e intellettualmente onesto. Nella misura in cui tale dialogo avviene nella libertà, ne trarranno beneficio tanto il rispetto della persona quanto la democraticità del Paese.