Il segno. La profezia di pace di Giovanni Paolo I. Un Papa che parla ancora al mondo
«Di pace hanno fame e sete tutti gli uomini, specialmente i poveri che nei turbamenti e nelle guerre pagano di più e soffrono di più; per questo guardano con interesse e grande speranza al convegno di Camp David. Anche il Papa, ha pregato, ha fatto pregare e prega perché il Signore si degni di aiutare gli sforzi di questi uomini politici...». Sono le parole ancora attualissime pronunciate 44 anni fa ad incipit di un breve Angelus di quel settembre 1978 rimasto nella storia: quello di Giovanni Paolo I che alla vigilia del summit sul conflitto arabo-israeliano negli Usa invitava a pregare per la pace i leader politici di tre diverse fedi. E alla sua insistente preghiera univa l’affermazione rimasta famosa per descrivere l’amore intramontabile e la misericordia verso di noi da parte di Dio: «È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti». E lo ha fatto richiamando un passo dei testi sacri dell’islam: «C’è una notte nera, una pietra nera e sulla pietra una piccola formica; ma Dio la vede, non la dimentica».
È il primo Pontefice a citare un versetto del Corano in un Angelus. E in quelle parole pronunciate – che sembravano a braccio ma hanno alle spalle ben due stesure autografe – nel mezzo di un pontificato durato appena 34 giorni, Luciani, ex docente di teologia dogmatica, tesseva le corde profonde del suo magistero e faceva progredire la Chiesa lungo le strade maestre indicate dal Concilio: la risalita alle sorgenti del Vangelo e una rinnovata missionarietà, il dialogo interreligioso, la collegialità episcopale, il servizio nella povertà ecclesiale, la ricerca dell’unità dei cristiani, il dialogo internazionale condotto con perseveranza e determinazione, per la giustizia e la pace. Ognuna di queste priorità ha scandito i gesti e le parole del suo pontificato. E come già prefigurato nel messaggio Urbi et orbi, pronunciato il 27 agosto in latino, la sua rotta si era delineata con chiarezza nei sei programmatici «Volumnos», vogliamo, nei quali dichiarava di continuare l’attuazione del Vaticano II, sempre inteso da Luciani come risalita alla tradizione della Chiesa che scaturisce dalla fides romana. Gli altri cinque «vogliamo» ne delineano così le priorità: nel custodire «la grande disciplina della Chiesa sia nell’esercizio delle virtù evangeliche sia nel servizio dei poveri, agli umili, agli indifesi»; nel «ricordare alla Chiesa intera che il suo primo dovere è l’evangelizzazione »; nel «continuare l’impegno ecumenico»; nel proseguire «con fermezza il dialogo sereno e costruttivo che Paolo VI ha posto a fondamento e programma della sua azione pastorale»; nel «favorire tutte le iniziative che possano tutelare e incrementare la pace nel mondo turbato». Sono dunque questi sei «vogliamo», declinati in programma di pontificato da Giovanni Paolo I che possono far riflettere sulla stringente attualità del suo messaggio, quello di un Pontefice che non è stato il passaggio di una meteora ma è stato e rimane un punto di riferimento nella storia della Chiesa, la cui importanza – come aveva fatto osservare san Giovanni Paolo II – è inversamente proporzionale alla durata del suo pontificato.
Nella sua agenda personale, patrimonio oggi, insieme a tutte le sue carte, della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I, l’inizio dell’utilizzo da Pontefice è segnato semplicemente dalla dicitura «Roma» e la data in calce «3-9-78». Mentre le sue prime parole: «Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente… » caratterizzate da una inedita comunicativa in prima persona avevano recuperato un’oralità dal registro familiare che sembrava risorgere dai secoli. Giovanni Paolo I, il 27 agosto, l’indomani dell’elezione, aveva spalancato una porta nuova nel rapporto con la contemporaneità attraverso la scelta teologica del sermo humilis. Il suo pontificato era iniziato con la massima semplicità: nessuna incoronazione, gesti che testimoniavano la decisa volontà di riscoprire la dimensione pastorale dell’ufficio papale.
Prossimità, umiltà, semplicità evangelica, insistenza sulla misericordia di Dio, amore per gli altri e solidarietà ne sono i tratti salienti. Albino Luciani, dopo un Conclave durato soltanto 26 ore, con un consenso quasi plebiscitario, il 26 agosto era salito al Soglio di Pietro, o meglio, vi era disceso, come Servus servorum Dei, abbassandosi al vertice dell’autorità che è quella del servizio voluto da Cristo, se nell’agenda personale del pontificato siglava in calce, con queste parole, l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità». Papa Luciani è così tuttora segno di quella continuità di speranze che vengono da lontano e che affondano le radici nel mai dimenticato tesoro di una Chiesa senza trionfi mondani, che vive della luce riflessa di Cristo, vicina all’insegnamento dei grandi Padri della Chiesa alla quale era risalito il Concilio. È in questa stringente attualità che va riconsiderata la sua statura, erede e precorritrice dei tempi. Non occorre perciò chiedersi quale sarebbe stata la strada che con lui avrebbe percorso la Chiesa: l’immagine che di essa nutriva Giovanni Paolo I è quella delle Beatitudini, dei poveri di spirito, della Lumen gentium.
Il convegno sul magistero di Giovanni Paolo I, alla luce delle carte dell’archivio privato e dei testi e degli interventi del pontificato (che per la prima volta sono stati restituiti alla loro integrità e dati alle stampe a cura della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I), lo scorso 13 maggio alla Pontificia Università Gregoriana, ha aperto sulla base delle fonti una pagina sostanzialmente nuova per la narrazione del suo pontificato e del suo magistero. Magistero che ha concorso a rafforzare il disegno di una Chiesa conciliare vicina alle genti e alla loro sete di carità e ha concorso a rafforzare e testimoniare oggi il disegno di una Chiesa che con il Concilio è risalita alle fonti per essere fedele alla natura della sua missione nel mondo.