Chiesa

Voci di pace. Hebron, paradigma della guerra e del ruolo dei cristiani

Martino Diez giovedì 2 novembre 2023

Trenta chilometri a sud di Gerusalemme, Hebron in questi giorni non è nell’occhio del ciclone, per quanto la tensione stia montando anche in Cisgiordania. Nella guerra in corso rappresenta però un paradigma e un messaggio: un paradigma di come si è arrivati a questo nuovo conflitto – non evidentemente come casus belli, ma come tendenza di fondo – e un messaggio circa il ruolo che possono provare a svolgere i cristiani.


Anche per gli standard di un una terra in cui ogni sasso racchiude qualche memoria millenaria, Hebron è un luogo eccezionale: conserva la grotta di Macpela, una tomba di famiglia in cui secondo la Genesi trovarono sepoltura Sara e Abramo, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lea, e Giuseppe. Quanto di più sacro si possa immaginare per l’Ebraismo, fatto salvo il solo Monte del Tempio, ma anche quattro profeti fondamentali per l’Islam, che nel Corano si autodefinisce proprio come “la religione di Abramo”.


Dal 1996 quella che era originariamente una moschea (e prima una chiesa cistercense costruita dai crociati) è divisa in due parti: una islamica e una ebraica, ognuna interdetta ai fedeli dell’altra religione. La tensione che ne è derivata si è trasmessa a tutto il centro storico, anch’esso diviso in due zone, ma oggi in gran parte disabitato, strade deserte e filo spinato e un suq in cui resistono testardi alcuni venditori. In questo senso la città è lo specchio di un conflitto ormai inestricabilmente avvolto in un simbolismo religioso difficile da dipanare. Per alcune formazioni dell’estrema destra israeliana, doveva anche essere la prova generale per la partizione della spianata delle moschee di Gerusalemme, il Monte del Tempio. Appunto, un paradigma.


In questo quadro triste c’è però un particolare significativo. Gli unici che oggi possono accedere sia alla parte islamica che a quella ebraica del Santuario sono i cristiani. Forse perché politicamente in Terra Santa non contano nulla. Mi sembra questa un’immagine evocativa di quello a cui siamo chiamati in questo momento. Non a parteggiare in modo unilaterale per uno dei belligeranti – perché chiamare il terrore cieco di Hamas una forma di “resistenza” è inaccettabile e d’altra parte il diritto di difendersi di Israele ha dei limiti, fissati dal diritto internazionale. Chi come noi non ha responsabilità politiche dirette, ma magari ha amicizie e conoscenze in entrambi gli schieramenti, ha il compito di parlare con entrambi, ascoltarne il grido, il dolore, e mettersi in mezzo. Intercedere. Con le azioni e con la preghiera. Così da preparare il terreno perché un giorno israeliani e palestinesi possano tornare a sedersi attorno allo stesso tavolo.


direttore scientifico della Fondazione Oasis