Mafia. Chi era Totò Riina: le stragi, la latitanza e i processi
Totò Riina, il boss di Cosa nostra, dietro le sbarre durante un processo nel 1993 (Ansa)
A 87 anni compiuti, 24 trascorsi in carcere al regime del 41 bis e altrettanti in latitanza, il capo dei capi di Cosa nostra è morto. Salvatore (Totò) Riina, da giorni in coma dopo due interventi, ha smesso di vivere alle 3.37 nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma. Ieri aveva compiuto 87 anni e per gli inquirenti teneva ancora lo scettro del potere mafioso e non ha mai avuto un cenno di pentimento. Stava scontando 26 ergastoli per decine di omicidi e stragi, tra le quali quella di viale Lazio a Palermo, gli attentati del '92 in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino e quelli del '93 in varie zone d’Italia. Addirittura, tre anni fa, parlando con un altro detenuto durante l'ora d'aria, si vantava dell’omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati. L’ultimo processo a suo carico, ancora in corso, è quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, in cui era imputato di minaccia a corpo politico dello Stato.
A luglio scorso il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva rigettato la richiesta di differimento della pena per Totò Riina, avanzata dai suoi legali. I giudici hanno ritenuto che nell'ospedale emiliano fosse curato nel migliore dei modi. La decisione ha fatto seguito al provvedimento con cui la Cassazione aveva chiesto alla Sorveglianza di motivare meglio la compatibilità con il regime carcerario del boss malato.. Ieri, quando ormai era chiaro che le sue condizioni erano disperate, il ministro della Giustizia ha concesso ai familiari un incontro straordinario col boss.
È stata disposta l'autopsia "trattandosi di un decesso avvenuto in ambiente carcerario e che quindi richiede completezza di accertamenti, a garanzia di tutti", spiega il procuratore di Parma, Antonio Rustico.
Con la sua morte restano senza risposte molte domande: sui rapporti mafia e politica, sulla stagione delle stragi, sui cosiddetti delitti eccellenti, sulle trame che avrebbero visto Cosa nostra a braccetto con poteri occulti in una comune strategia della tensione. Riina non ha mai mostrato alcun segno di marcia indietro. Fino alla fine quando, al processo trattativa, citato dalla Procura è rimasto in silenzio.
Il ritratto
Nato a Corleone il 16 novembre del 1930 da un famiglia di contadini, Totò Riina, inizia presto la “carriera” criminale che lo porterà a diventare il super boss della mafia stragista. A poco più di 18 anni entra in carcere per la prima volta e con un'accusa grave: l’omicidio di un coetaneo, durante una rissa, per cui viene condannato a 12 anni. È l'incontro con Luciano Leggio (per un errore di trascrizione alla storia passerà col nome di Liggio) che gli aprirà la strada per entrare in Cosa nostra. Un metro e 58, che gli vale il soprannome di Totò U Curtu, esce dall’Ucciardone nel 1956, a pena scontata solo in parte, e viene arruolato nel gruppo di fuoco di Leggio che dietro di sé lascia una lunga scia di sangue. Riina ne diventa il vice.
Nella banda c'è anche un altro compaesano, Bernardo Provenzano. Nel dicembre del 1963 Riina viene fermato da una pattuglia di carabinieri in provincia di Agrigento: ha una carta di identità rubata e una pistola. Torna all’Ucciardone per uscirne, dopo un’assoluzione per insufficienza di prove nel 1969. Mandato fuori dalla Sicilia al soggiorno obbligato, non lascerà mai l’Isola scegliendo una latitanza durata oltre 20 anni. Da ricercato inizia la sistematica eliminazione dei nemici: nel 1969, con Provenzano e altri uomini d’onore, uccide a colpi di mitra il boss Michele Cavataio e altri quattro picciotti in quella che per le cronache sarà la strage di viale Lazio. Due anni dopo è lui a sparare contro il procuratore di Palermo Pietro Scaglione. L’ascesa in Cosa nostra, ottenuta col sangue e la violenza - sarebbero oltre 100 gli omicidi in cui è coinvolto e 26 gli ergastoli a cui è stato condannato - è inarrestabile. E va di pari passo con i primi delitti politici: l'ex segretario provinciale della dc Michele Reina e il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Dopo la cattura di Leggio, Riina prende il suo posto nel triumvirato mafioso assieme a Stefano Bontate e Tano Badalamenti. Farà poi allontanare quest’ultimo, accusandolo falsamente dell’omicidio di un capomafia nisseno.
Ma è negli anni 80 che il ruolo suo e dei suoi, i viddani, i villani di Corleone che hanno sfidato la mafia della città, diventa indiscusso. Soldi a fiumi con la droga, gli appalti e la speculazione edilizia. E una conquista del potere a colpi di omicidi eclatanti e lupare bianche. Un'intera classe dirigente - da Michele Reina a Piersanti Mattarella a Pio La Torre - è stata abbattuta. Sono caduti magistrati (Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici), giornalisti (Mario Francese), investigatori (Boris Giuliano, Emanuele Basile, Mario D'Aleo, Ninni Cassarà, Giuseppe Montana), medici incorruttibili (Paolo Giaccone), superprefetti (Carlo Alberto Dalla Chiesa).
Condannato in contumacia all’ergastolo durante il «maxiprocesso», viene inchiodato dalle rivelazioni dei primo pentito di rango, Tommaso Buscetta. Totò «u curto» si vendica facendogli uccidere undici parenti. Quando il maxi diventa definitivo e cominciano a fioccare gli ergastoli per gli uomini d’onore, il padrino dichiara guerra allo Stato.
La stagione delle stragi
Una sorta di redde rationem con la condanna dei nemici storici come i giudici Falcone e Borsellino, a cui si doveva il maxiprocesso, e di chi aveva tradito. La lista di chi andava eliminato era lunga e contava anche i politici che, secondo il boss, non avevano rispettato i patti. È la stagione delle stragi che il capo dei capi vuole nonostante non tutti in Cosa nostra siano d’accordo.
Il 12 marzo muore Salvo Lima, proconsole andreottiano in Sicilia. Il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al boss restano però pochi mesi di libertà: il 15 gennaio del 1993 i carabinieri del Ros lo arrestano dopo 24 anni di latitanza. La moglie, Ninetta Bagarella che ha trascorso con lui tutta la vita, torna a Corleone con i quattro figli, Lucia, Concetta, Giovanni e Giuseppe Salvatore, tutti nati in una delle migliori cliniche private di Palermo. Gli ultimi periodi della latitanza la famiglia li trascorre in una villa degli imprenditori mafiosi Sansone, a due passi dalla circonvallazione. I carabinieri lo ammanettano poco lontano da casa: un arresto il suo su cui restano molti punti oscuri.
Comandava dal carcere
Intercettato in carcere durante l’ora d’aria, mentre parlava con Alberto Lorusso, boss pugliese, Riina, oltre a rivendicare le stragi e a vantarsi di aver fatto fare la "fine del tonno" a Falcone era tornato a minacciare magistrati in vita. Nel 2013 auspicava di poter colpire il pm Nino Di Matteo che rappresenta l'accusa nel processo per la presunta trattativa tra Stato e mafia, oggi alla Direzione nazionale antimafia. «i questo processo, questo pubblico ministero di questo processo - dice Riina, riferendosi a Di Matteo - che mi sta facendo uscire pazzo, per dire, come non ti verrei ad ammazzare a te, come non te la farei venire a pescare, a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti?».
Le reazioni
«La fine di Riina non è la fine della mafia siciliana che resta un sistema criminale di altissima pericolosità», ha detto il presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, ricordando che «Totò Riina è stato il capo indiscusso e sanguinario della Cosa Nostra stragista. Quella mafia era stata già sconfitta prima della sua morte, grazie al duro impegno delle istituzioni e al sacrificio di tanti uomini coraggiosi e giusti». «Non possiamo dimenticare quella stagione drammatica - aggiunge la presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi -, segnata dal delirio eversivo di un uomo spietato, che non si è mai pentito dei suoi crimini efferati e non ha mai collaborato con la giustizia. A noi resta il dovere di cercare le verità che per tutti questi anni Riina ha nascosto e fare piena luce sulle stragi che aveva ordinato».
Numerose le reazioni dei familiari delle vittime degli omicidi ordinati da Riina. «Non gioisco per la sua morte, ma non posso perdonarlo. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato» dice Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso a Capaci. «Per quello che è stato il suo percorso mi pare evidente che non abbia mai mostrato segni di pentimento», ha aggiunto. «È morto Salvatore Riina il boia di via dei Georgofili del 27 Maggio 1993. È morto a 41 bis, questo è quanto dovevamo ai nostri morti»: sono le parole scritte da Giovanna Maggiani Chelli, dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili (a Firenze).