Caso Trentini. Eutanasia, un'altra assoluzione
Davide Trentini con Mina Welby
Assolti perché il fatto non sussiste. Con questa formula, la Corte d’Assise di Massa (Massa Carrara) ha assolto Mina Welby e Marco Cappato, rispettivamente co-presidente e tesoriere dell’associazione radicale Luca Coscioni, dall’accusa di aiuto nel suicidio. Già il pubblico ministero, Marco Mansi, aveva chiesto il minimo della pena (3 anni e 4 mesi), ritenendo il gesto compiuto dagli imputati nei confronti di Davide Trentini – malato di sclerosi multipla – un comportamento meritevole «di alcune attenuanti», perché ispirato da «nobili intenti». Questo “nobile gesto” si è concretizzato nel dar corso alla disperata richiesta del malato di porre fine alla sua vita: in una clinica svizzera che eroga il suicidio assistito, dopo un iter medico burocratico in gran parte percorribile a distanza. Era l’aprile del 2017: immediatamente dopo la morte di Trentini, i due imputati assolti ieri si erano autodenunciati ai Carabinieri, ovviamente nell’intento di creare il caso giudiziario e nella speranza di giungere all’esito effettivamente decretato lunedì.
SECONDO NOI Strategie e smanie madri d'ingiustizia
Sotto il profilo giuridico, la questione è complessa. Fino alla sentenza 242 del 2019, il nostro codice penale vietava sempre e comunque l’assistenza nel suicidio di una persona. Poi, alla Consulta è arrivato il caso di dj Fabo, un altro malato – cieco e tetraplegico – aiutato a morire sempre in Svizzera, e sempre da Cappato. Ed ecco la decisione del cosiddetto “giudice delle leggi”: l’assistenza al suicidio non può essere punita quando il malato che la chiede è tenuto in vita da presidi di sostegno vitale, è affetto da una patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche e psichiche da lui ritenute intollerabili, ancora è in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, e già è stato inserito in un ciclo di cure palliative. Condizioni tutte presenti in Trentini, a eccezione – almeno così sembrava – di una sostanziale: la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, come per esempio la ventilazione assistita. Ed era proprio su questo aspetto che si era concentrato il consulente di parte, l’anestesista Mario Riccio, salito alla ribalta nel 2006, quando aveva staccato i macchinari a Piergiorgio Welby: per lui, la terapia farmacologica (contro i dolori e gli spasmi) e meccanica (per l’evacuazione delle feci) costituivano una terapia di sostegno vitale, in grado dunque di determinare l’assoluzione degli imputati.
Immediatamente dopo la pronuncia del dispositivo della sentenza, Gallo ha commentato il verdetto come un «importante precedente per tutti quei malati che non sono dipendenti da una macchina, ma che sono dipendenti da farmaci, e hanno delle malattie irreversibili che producono gravi sofferenze». Della sentenza, lunedì, è stato letto solo il dispositivo, vale a dire la decisione. Per le ragioni che l’hanno ispirato, bisognerà invece attendere il deposito del provvedimento integrale. Non è infatti scontato che la Corte d’assise – in punta di diritto – abbia accolto la prospettiva disegnata da Riccio. Nella sentenza del 2019, infatti, la Corte Costituzionale aveva disciplinato anche le “condotte” – cioè gli aiuti nel suicidio – compiuti prima della sua pronuncia, e nel frangente aveva invitato i giudici ad assolvere non solo coloro che avevano operato in presenza delle precise condizioni indicate nella vicenda di dj Fabo, ma anche gli imputati che avevano agito in presenza di contesti equivalenti: quelli cioè caratterizzati dalla gravità della malattia e dalla libera volontà – in capo al degente – di porre fine alla propria vita.
Alberto Gambino, presidente di Scienza e vita, commenta lapidario: «Suggerisco a chi plaude alla decisione di avere l’onestà di riconoscere che quando un’autodenuncia finisce con l’assoluzione, evidentemente si è tentato di strumentalizzare un caso pietoso».