Lo studio. Covid-19 meno letale quando fa caldo. Il 40° parallelo come Grande muraglia
Aspettando l'estate a Cesenatico. Il caldo fa male al coronavirus e bene a noi
L'ultima scoperta potrebbe metter pace tra chi sostiene che dobbiamo la vita al lockdown e chi ritiene che il virus abbia fatto tutto da sé. E che da solo, un po’ come la Sars, sparirà. Di segnali ne arrivano. «Si muore di meno, il virus è più debole» annuncia Matteo Bassetti da Genova. «Si muore di meno ma può dipendere da molti fattori» replica Marco Salemi dalla Florida. Nel back office dell’emergenza sta cambiando qualcosa che è scritto nel Rna del coronavirus, ma pare che si realizzerà solo se continueremo a mettere la mascherina e a mantenere il distanziamento fisico.
Un gruppo di ricercatori di Baltimora, Trieste e Roma segnala «una forte correlazione inversa, statisticamente significativa tra le alte temperature mensili medie con il numero di decessi». Più giornate calde ci sono, più il Covid-19 si indebolisce. E meno uccide. Del resto, è provato che ai virus piace il freddo – li si conserva sottozero –, mutano rapidamente, tendono a stabilire un equilibrio con l’ospite e il distanziamento fisico li fiacca, anche se risulta più o meno efficiente a seconda che faccia più o meno caldo.
Su quest’ultimo punto, nel concludere la loro ricerca – intitolata "Correlazione tra temperature medie giornaliere e tasso di mortalità correlato a Covid-19 in diverse aree geografiche" – Francesca Benedetti, Maria Pachetti, Bruna Marini, Rudy Ippodrino, Robert C. Gallo, Massimo Ciccozzi e Davide Zella sono davvero espliciti: «I nostri dati indicano che le misure di allontanamento sociale hanno maggiore successo in presenza di una temperatura media giornaliera più elevata nel ridurre il tasso di mortalità correlato a Covid-19 e un alto livello di densità di popolazione sembra avere un impatto negativo sull’effetto delle misure di blocco». Eccola, scolpita nel metodo scientifico, la linea del governo su distanziamento e mascherine. Ma anche quella di commercianti e albergatori, visto che, sempre secondo questi dati, si sarebbe dovuto aprire prima al Sud e un po’ più tardi al Nord.
A firmare lo studio, oltre al celebre Robert Gallo, sono quegli stessi scienziati che hanno dimostrato il salto di specie pipistrello-uomo (Ciccozzi, Università Campus biomedico di Roma), le mutazioni del ceppo europeo e americano (Zella, Istituto di Virologia Umana-Università del Maryland) e la possibilità che il virus si adatti all’uomo. Magari nel bel mezzo dell’estate, quando si intensificherà quella «forte correlazione inversa» di cui si parla nel lavoro scientifico uscito sul Journal of Translation Medicine (preprint in corso di review). Prospettiva che abbiamo anticipato su Avvenire il 28 aprile e che lo stesso Ciccozzi ha richiamato durante un’audizione al Senato, quando ha sottolineato il ruolo della distanza sociale nel propiziare le mutazioni “buone”.
Per capire se e come le condizioni ambientali possano aiutare a fermare un patogeno che finora ha fatto 200mila morti nel mondo, si è partiti dalla consapevolezza che «la maggior parte dei virus respiratori sono sensibili alle condizioni geografiche locali come la temperatura e l’umidità locali» che generano ondate stagionali di epidemie. Si sa che in taluni casi, vedi la Mers, sono favoriti dalle alte temperature e che, per contro, i climi caldi riducono l’infettività della Sars-CoV-1. Lo studio ha messo in relazione, considerando i mesi di marzo e aprile, le temperature mensili medie e la densità di popolazione di diverse aree geografiche (Usa, Italia, Belgio, Gran Bretagna e Malta) con il numero di decessi, rispetto a un milione di persone.
Scoprendo che «il numero di decessi correlati a Covid-19 (1 milione di persone) è stato sostanzialmente lo stesso durante il mese di marzo per tutte le aree geografiche considerate, indicando essenzialmente che l’infezione stava circolando in modo abbastanza uniforme (ad eccezione di Lombardia, Italia, dove è iniziata prima). Ad aprile, abbiamo osservato invece un significativo aumento del numero di decessi su un milione di persone nelle aree in cui le alte temperature mensili registrate erano inferiori a 18,3 gradi Celsius (65 Fahrenheit). Abbiamo trovato una diminuzione statisticamente significativa della correlazione tra il numero di decessi su un milione di persone con l’aumento delle alte temperature mensili medie». Più sfumato il tema della densità di popolazione, che sembra ridurre l’efficienza del lockdown.
Ma non è tutto. Considerando la variabile della latitudine, i ricercatori scrivono: «A marzo non vediamo alcuna differenza statistica, mentre ad aprile la latitudine di 40° è un chiaro separatore: nelle aree situate sopra i 40° il numero di morti aumenta significativamente rispetto aree situate sotto i 40°. A marzo notiamo l’estremo valore dei decessi su un milione di persone in Lombardia, in Italia, come conseguenza della precedente diffusione dell’epidemia». Questo potrebbe spiegare perché il virus non abbia sfondato nel Mezzogiorno né in Africa, anche se ora occorre tenere presente che l’emisfero australe sta entrando nella fase invernale.
Il virus che si indebolisce: speranza per l'estate di Paolo Viana (28 aprile 2020)