Attualità

Roma. Se il Parlamento (a sorpresa) fa lobby per l'industria delle armi

Antonio Maria MIra sabato 20 luglio 2019

«Un’industria nazionale dei materiali per la difesa e la sicurezza efficiente e competitiva, oltre a rappresentare uno strumento essenziale per l’affermazione della sovranità dello Stato, contribuisce in vario modo alla crescita del prodotto interno lordo». Non lo scrive qualche azienda produttrice di armi ma la Commissione Difesa del Senato in una risoluzione «sulle prospettive dell’export italiano di materiali per la difesa e la sicurezza», approvata all’unanimità lo scorso 3 luglio. Un documento, che ha come relatore il senatore leghista Massimo Candura, che impegna il governo a operare «una semplificazione delle procedure» di esportazione delle armi, in particolare verso Paesi non Ue e Nato. Tema molto delicato. Basti ricordare che già ora tra i nostri migliori clienti ci sono i Paesi mediorientali e del Golfo Persico, zone ad alto rischio.

Come la vicenda ben nota ai lettori di 'Avvenire' della vendita di bombe all’Arabia Saudita coinvolta nella drammatica guerra nello Yemen. Ma di tutto questo non c’è traccia nella risoluzione, tutta concentrata solo a difendere la nostra industria bellica e le sue esportazioni che, scrive la commissione, «costituisce una parte rilevante dell’economia nazionale, incidendo in maniera significativa sul prodotto interno lordo e presentando importanti ricadute occupazionali, sia in via diretta che in relazione all’indotto». Di nuovo solo affermazioni economiche. Che non finiscono qui. I senatori, infatti, sottolineano come «i recenti significativi sviluppi nel campo della difesa comune europea rendono ancora più urgente il rafforzamento dell’industria nazionale, per consentirle di partecipare nelle migliori condizioni a progetti collaborativi e alleanze industriali ». Proprio per questo la commissione afferma che «è necessario assicurare un quadro normativo che superi ogni elemento di possibile penalizzazione delle imprese italiane, anche in ragione del crescente pericolo di acquisizioni estere ostili e del consistente rischio di vedere pregiudicate molte occasioni di cessioni e di attività imprenditoriali all’estero».

Ma qui si tratta del delicatissimo settore delle armi, non di prodotti di consumo o elettrodomestici. Ma la Commissione va oltre e chiede che lo Stato non si limiti, nel settore dell’export di armi, ad «attività di supporto tecnico-amministrativo, sostegno logistico e assistenza tecnica » ma svolga anche «attività di carattere contrattuale». Un ruolo decisamente nuovo, una sorta di mediazione commerciale. Infatti la Commissione impegna il Governo «a prevedere adeguate forme di coordinamento istituzionale a sostegno del comparto dell’industria della difesa, anche attraverso cabine di regia interministeriali ». Ma anche con «un nucleo tecnico- operativo, di ausilio alla struttura di coordinamento che costituisca l’interfaccia tra i vertici del Governo e il sistema delle imprese, in modo da fornire a queste ultime ogni possibile supporto nella competizione sui mercati mondiali». Chiarissimo. Ma davvero sembra che si parli di automobili o di agroalimentare, e non di strumenti di morte. Promozione delle vendite di armi, dunque, e anche modifiche normative per eliminare lacci e lacciuoli. Così si chiede di introdurre «anche per i Paesi terzi al di fuori dell’Unione europea e della Nato, lo strumento autorizzativo della licenza globale di progetto, superando contestualmente la previsione del concerto con il ministro dell’Economia e delle finanze di cui all’articolo 13, comma 1, della citata legge n. 185 del 1990». L’ottima legge sul commercio delle armi che più volte si è provato a modificare. Invano. Ma ora?