Inchiesta. Disagio psichico, le famiglie: «I nostri figli speciali dimenticati»
È difficile guardare la tragica vicenda dell’omicidio di Alika, l’ambulante soffocato in strada a Civitanova Marche, dal punto di vista del suo assassino. Si chiama Filippo Ferlazzo, ha 32 anni e da sempre manifestava un disturbo della personalità. Per questo sua madre aveva cercato aiuto: lo aveva trovato nelle comunità psichiatriche da cui Filippo era entrato e uscito di continuo, durante il suo complicato percorso di cura, mai davvero completato. L’avevano nominata sua tutrice: un termine il cui valore legale non cammina di pari passo con la realtà. Filippo, libero com’era, da Salerno se n’era andato per farsi un’altra vita. Là dove sua madre, che la famiglia di Alika ha accusato di inerzia, non poteva impedirgli nulla. Su Filippo Ferlazzo deciderà la giustizia e sulle sue intenzioni la perizia psichiatrica a cui sarà sottoposto; le responsabilità di sua madre, invece, sono già state escluse. Il tema dei figli speciali e delle loro famiglie, affrontato in un editoriale da Roberta D’Angelo sulle nostre pagine il 2 agosto scorso, è più che mai aperto.
Ci sono famiglie che si sentono isolate e trascurate, sole alle prese con problemi angosciosi, generati dalla presenza di un congiunto – spesso un figlio – sofferente per un disturbo psichico. E che talvolta incappa nelle maglie della giustizia, con conseguenze ancora più pesanti. D’altra parte, gli psichiatri osservano che il grande lavoro che viene svolto dagli operatori appare insufficiente sia per la carenza di risorse, sia per l’effetto mediatico che un solo caso che fa notizia (negativa) sparge sull’intero comparto dell’assistenza psichiatrica. A questo va aggiunto che il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) stabilito dalla legge 81/2014 che ha istituito le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) appare tuttora incompiuto, proprio a causa dell’insufficiente numero di posti disponibili, che rende probabile la permanenza in carcere di persone che non dovrebbero rimanervi. Con gravi rischi per la loro salute.
Un “brutto carattere”
È la storia – dolorosa – che raccontano Antonella, Maria, Stefania, madri di famiglie accomunate dalla fatica di accudire un figlio con disturbi psichici. «La maggior parte dei Servizi di salute mentale – racconta Antonella Algeri, presidente di “Abbraccialo per me” e vicepresidente di “Famiglie in rete” – si occupa dei casi in cui c’è il consenso al trattamento. Ma in molte malattie mentali, le più gravi, la persona non ha consapevolezza della malattia. E talvolta il disturbo di personalità viene derubricato a “brutto carattere”, senza riconoscere il problema che si presenta come una difficoltà di gestione delle emozioni, specie la rabbia, come stabilisce il Dsm (il Manuale dei disturbi mentali più noto)». «Il rischio – sottolinea Algeri – è che in nome della libertà di cura, la persona non venga presa in carico (a parte i trattamenti sanitari obbligatori, acuti). E se non si presenta alle cure, per i Servizi sanitari non esiste. Ma resta ben presente per le famiglie».
Vite interrotte
«Sono situazioni che distruggono la vita delle famiglie» lamenta Maria Gorlani, madre di un giovane di 22 anni con un disturbo bordeline di personalità e che ha già 17 procedimenti penali sulle spalle, 14 mesi di carcere e altri 12 trascorsi fra tre comunità diverse. «Fin da piccolo aveva una disregolazione emotiva: qualunque emozione, rabbia o gioia, viene vissuta in modo estremo, con reazioni eccessive. Esistono terapie scientificamente provate, con ottimi risultati per il suo disturbo». Tuttavia, anche in questo caso, lamenta Maria Gorlani, «veniamo lasciati soli: anche se mio figlio vorrebbe curarsi, i suoi tempi non corrispondono a quelli dei Servizi. E quindi non si riesce ad “agganciarlo” per la cura». La Rems non gli spetta, dice la mamma, perché «è riservata a chi è socialmente pericoloso e totalmente incapace di intendere e volere». Nemmeno le comunità sono state la soluzione: «Alcune comunità terapeutiche, private, selezionano i loro ospiti e se li ritengono inadatti o pericolosi, non li accettano – lamenta Maria Gorlani –. Oppure li sedano, come è successo a mio figlio per mesi. Un’altra comunità, invece, ha cominciato a denunciarlo per ogni sua trasgressione: se spaccava una porta (come fa a casa, del resto) o spintonava un’educatrice. Alla fine il giudice l’ha mandato in carcere». Tuttavia persino qui si era trovato un risvolto positivo: «In un posto protetto e contenuto – racconta Gorlani –, grazie agli sforzi di noi genitori e del garante delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, è stato possibile ottenere un progetto che gli permetteva di uscire dal carcere minorile Beccaria, in semilibertà, e andare all’ospedale per fare la terapia specifica per il suo disturbo, tornando in carcere alla sera». Il paradosso è che quando è finita la pena... è terminata anche la cura: «Dopo quattro mesi di cura, efficace, è stato rimesso in libertà, dopo due anni di cattività – si rammarica la mamma – e non è più riuscito a seguire la terapia come prima. E nessuno, siccome era un uomo libero, e libero di curarsi, è stato in grado di farsi carico della sua patologia».
Rifiutati da tutti
Ancora più dolorosa la storia di Stefania, mamma di Giacomo Trimarco, 21 anni, che si è tolto la vita a fine maggio nel carcere di San Vittore di Milano: «Nostro figlio – racconta – non presentava una grave pericolosità sociale, ma manifestava sintomi di autolesionismo. Addirittura in passato ci era stata sospesa la potestà genitoriale perché il suo disturbo borderline di personalità era stato ricondotto a una malgestione familiare». Arrestato per un furto, non è stato possibile mandarlo in una Rems: «Il giudice ha chiesto ai Servizi territoriali di trovare una struttura. Questa però, ai suoi primi atti autolesivi, l’ha rifiutato. Dopo molte nostre pressioni, ad aprile è arrivata la disposizione del giudice per il ricovero in Rems». Tuttavia non c’era ancora posto. «Purtroppo – conclude la mamma – in carcere si è tolto la vita un ragazzo con cui aveva fatto amicizia, e questo fatto lo aveva colpito. Non sapremo mai se voleva fare un altro gesto dimostrativo... Oggi speriamo solo che la sua morte serva ad altri ragazzi».
Chi è pericoloso?
Parte da lontano la riflessione dello psichiatra Alberto Siracusano, direttore dell’Unità operativa complessa di Psichiatria e Psicologia Clinica del Policlinico Tor Vergata di Roma: «Credo che uno dei grandi problemi della nostra società sia la rabbia, le cui manifestazioni si vedono anche in persone che non soffrono di disturbi psichici». Ciò rende sempre più necessario, aggiunge, «da un lato che le famiglie siano attente alla prevenzione, a cogliere i primi segnali di disturbi. Dall’altro che i Centri di salute mentale sviluppino programmi di psicoeducazione e consulto per insegnare a gestire le disfuzioni della relazione – per esempio anche nelle coppie – e sviluppare percorsi assistenziali di cura». Il tutto prima che a un soggetto venga applicato il concetto di “pericolosità sociale” che porta a gestire i problemi con misure attente all’ordine pubblico. «A questo riguardo le Rems sono un ottimo servizio, purtroppo carente perché ci sono pochi posti». Un dato confermato dai numeri. A luglio 2021 i posti letto disponibili ammontavano a 652, con altrettante persone in lista d’attesa, che spesso restano in carcere anche se non dovrebbero. E l’attesa media per un posto raggiunge i 304 giorni...
«Lavorare insieme»
Invita a non buttare il bambino con l’acqua sporca lo psichiatra Tonino Cantelmi, direttore clinico della Casa San Giuseppe dell’Opera Don Guanella a Roma: «Penso che tutti gli psichiatri, e i centri di salute mentale, facciano un lavoro enorme: vengono soccorse ogni giorno migliaia di persone, ne sono ricoverate tante, vengono salvati tanti dal suicidio... ». Tuttavia, ammette Cantelmi, «basta un caso drammatico, di un intervento che non riesce, di un caso di cronaca negativo, per cancellare tanto lavoro». «Anche le terapie dialettico comportamentali (Dbt) – continua Cantelmi – stanno mostrano grande efficacia. Certamente c’è una quota di pazienti, anche gravi, per i quali non ci sono risorse, ma non siamo all’anno zero. Oppure pazienti psichiatrici in carcere anziché in Rems: e questa è un’ingiustizia». Il miglior metodo, secondo Cantelmi, è uno solo: «Occorre che famiglie e psichiatri lavorino insieme, senza ideologie e contrapposizioni ». Aggiunge Siracusano: «Occorre cogliere i segnali di disagio quanto prima. A Tor Vergata abbiamo un servizio. l’Ambulatorio di transizione, dove vediamo ragazzi che commettono piccole trasgressioni che ancora non sono reati, che danno segnali di disfunzione sociale». «Ci accorgiamo – continua – che spesso entra in gioco la “povertà vitale”, concetto forte usato anche a livello forense, che riguarda famiglie che hanno debolezze affettive, valoriali, che hanno poche risorse, e non economiche. A queste famiglie occorre offrire una psicoeducazione per riuscire a gestire le situazione di squilibrio e contemporaneamente avviare il ragazzo a forme di riabilitazione psicoterapeutica. Spesso tutto questo manca perché non ci sono le risorse, ma è cruciale combattere questa “povertà vitale” che sta diventando un morbo nella nostra società. Occorre ricordare – conclude Siracusano – che aggressività e violenza non sono insite nella patologia psichiatrica, ma sono un fenomeno più compresso. Perciò non va stigmatizzato chi soffre di tali disturbi, ma vanno aiutate le famiglie».