L'intervista. Owen: ogni individuo è diverso, serve prudenza a staccare il sondino
Adrian Owen, neuroscienziato britannico noto nel mondo, insegna alla Western University in Canada
IL NEUROLOGO CANADESE CHE «DIALOGA CON GLI STATI VEGETATIVI»
Adrian Owen, neurologo di fama mondiale, entra nel dibattito sulle persone in stato "vegetativo" e lo fa dal punto di vista schiettamente scientifico. "Ne parlo da ateo e solo sulla base di ciò che rileviamo in via sperimentale grazie a esami e strumentazioni fino a dieci anni fa inesistenti", dice ad Avvenire. E promette: presto saremo in grado di saperne molto di più. E riguardo alla storia di Giulia, raccontata ad Avvenire dalla madre Maura e dal neurofisiatra Antonio De Tanti, commenta: "E' una vicenda importante. Storie come queste, ormai numerose, dimostrano che quanto ancora dobbiamo scoprire ed essere prudenti, in tempi di derive eutanasiche".
«Prudenza, a staccare i sondini alle persone in 'stato vegetativo' e farle morire. E lo dico da ateo. È provato scientificamente che ogni individuo porta in sé un suo personale livello di coscienza che non è fisso, che non è uno stato ma un movimento, che fluttua, migliora e peggiora». A dirlo è il numero uno al mondo della neuroscienza Adrian Owen, professore al Brain and Mind Institute della canadese Western University, famoso come 'il neurologo che dialoga con gli stati vegetativi', invitato a Milano dalla Società italiana di neuroetica. Durante la Risonanza magnetica funzionale, infatti, ha chiesto a pazienti apparentemente privi di coscienza di immaginare di giocare a tennis o invece di camminare in casa loro, e nei cervelli di un paziente su cinque si sono attivate le stesse aree che entrano in azione nelle persone sane. Non solo aveva scovato la coscienza in persone ritenute 'irreversibili', ma aveva trovato come dialogare con loro: se vuoi dire sì immagina la partita a tennis, se vuoi dire no immagina la stanza...
Diagnosi errate condannano dunque tanti pazienti a non ricevere le giuste cure, solo perché non sanno come dirci «io ci sono».
Un 40% di diagnosi di 'stato vegetativo' sono false. Poi c’è un altro 20% misterioso, che anche il miglior esperto al mondo, per gli strumenti che oggi abbiamo, descriverebbe come stato vegetativo. Ma la bella notizia è che stiamo creando nuovi strumenti che ci permetteranno di leggere queste situazioni.
Ha ancora senso, quindi, parlare di 'stato vegetativo'?
Assolutamente no. Per nessuna categoria di pazienti posso parlare di stato 'permanente' o 'persistente' o 'irreversibile', la situazione fluttua. Negli ultimi dieci anni abbiamo fatto passi da gigante, grazie alla Risonanza magnetica funzionale oggi il neurologo può leggere nella mente dei pazienti che conservano tracce di reattività, e il cambiamento epocale sarà il ritorno della scelta nelle mani del paziente: nei casi in cui sarà rilevata un’attività cerebrale anche minima, potrà esprimersi sulla sua salute ma anche su altri desideri. I vari interpreti – coniugi, medici, giudici – non possono sapere quale sia la sua vera volontà attuale.
Ha mai chiesto a questi pazienti se apprezzano la loro vita?
Lo chiesi solo al primo con cui comunicai, ma fu l’unica domanda che non ebbe un netto sì o un netto no: non è un quesito da poco, la risposta può essere 'sì purché mi togliate il dolore' oppure 'sì purché non sia lasciato solo'... Ho deciso che non farò più questa domanda finché non avremo strumenti di dialogo più precisi. Il collega Steven Laureys però lo ha chiesto a persone con sindrome 'locked in' (apparentemente incoscienti, muovono solo le palpebre) e i risultati dimostrano che la qualità della loro vita è considerata soddisfacente.
Vivendo in famiglia si hanno più possibilità di risveglio che in ospedale?
L’ambiente familiare stimola la coscienza di queste persone ed è fonte di grande energia: che fossero in casa o in ospedale, tutti i risvegliati avevano avuto accanto una presenza molto forte dei propri cari.
Come reagiscono i familiari quando la sua équipe può dialogare con i loro cari, prima ritenuti incoscienti?
Ci chiedono di comunicare loro le novità avvenute dopo l’incidente o l’aneurisma, la nascita di un nipotino, un matrimonio... Le domande che facciamo noi, invece, servono per sondare scientificamente la loro responsività e per migliorare la loro vita: se vogliono sentire musica o vedere il rugby, se si sentono al sicuro, se provano dolore, se ricordano l’incidente.
In tempi di derive eutanasiche, eticamente sono scoperte importantissime...
Senza dubbio. Ora sappiamo che non esistono categorie fisse, come scrivono i giornali, ma stati variabili con evoluzioni imprevedibili.