Esclusiva. Le prime immagini della nave quarantena. Nessuno a bordo è positivo al Covid
Doveva essere il lazzaretto galleggiante in cui deportare gli untori dalla pelle scura. Quei migranti salvati in mare dalle navi umanitarie e bloccati al largo da un provvedimento interministeriale che chiude i porti a causa della pandemia, ma che non risulta ancora pubblicato in gazzetta ufficiale.
La Rubattino, ormeggiata in rada a Palermo, è l’unica nave quarantena conosciuta da questa parte del mondo. Doveva tenere alla larga quelli che talvolta vengono descritti come bombe batteriologiche in carne e ossa. Invece, ha finito per essere uno dei luoghi più sicuri al mondo, sanitariamente parlando. Nessuno tra i 183 migranti, gli operatori della Croce Rossa (26) e l’equipaggio della Tirrenia (40) ha contratto il Covid. La riprova che non c’era ragione per assecondare paure irrazionali escogitando una costosa quarantena in rada che fa storcere il naso a molti giuristi.
La vita a bordo segue protocolli rigidi e sorrisi a distanza di sicurezza. L’ingresso dei corridoi verso le cabine nelle quali i migranti sono ospitati, è più simile a quello di un reparto di infettivologia che che non al ponte di una nave passeggeri. Tutti indossano le mascherine e devono rispettare il distanziamento sociale. Gli operatori vi entrano solo dopo avere indossato gli scafandri bianchi. E se non fosse per un certo umorismo dei ragazzi della Croce rossa, ai migranti sembrerebbe di stare sul set di Star Wars.
Nel corso della giornata sono assicurate alcune ore di uscita sul ponte all’aperto. E’ quello il momento in cui si può osservare la terra ferma a un paio di chilometri di distanza. Lo sperone che domina Palermo, su cui veglia il santuario di Santa Rosalia, è uno spettacolo che la maggioranza degli stranieri non ha ma mai visto. Una montagna che sprofonda nel mare, ma anche l’appiglio per le domande che si ripetono sempre uguali. “Quando scenderemo? Dove ci porteranno?”. I mediatori culturali rispondono con franchezza. E ci vuole poco a credergli. Sono tutti operatori della croce rossa, di origine africana. Sono tutti passati dalle torture in Libia e dai gommoni dei trafficanti, prima di sbarcare in Italia anni fa ed essere oggi tra i più esperti nella gestione di situazioni come questa: “Per scendere bisogna aspettare che si concluda la quarantena - spiegano in più lingue - , ma non sappiamo se resterete in Italia o verrete portati in altri Paesi”. Abbastanza, però, per sentirsi rassicurati e intanto chiedere qual è la direzione della Mecca, prima di inginocchiarsi e pregare nei giorni di Ramadan.
La Croce rossa italiana ha risolto l’impasse salendo sulla Rubattino, la nave privata individuata dal Viminale. A condizione di non avere agenti di polizia né militari a bordo. Proprio tra gli specialisti sul traghetto c’è la consapevolezza che i migranti non potranno restare confinati su questa grande infermeria galleggiante per un periodo superiore alle due settimane. Di per sé un tempo lungo. La maggior parte di loro ha trascorso giorni sui barconi e fino a una settimana sulle navi umanitarie. Soprattutto c’è chi è rimasto per mesi, anche un anno, rinchiuso nei campi di prigionia libici. La totale assenza di contagio, infatti, non giustificherebbe il trattenimento a bordo, dove si contano anche 44 minorenni non accompagnati, che secondo la legge andrebbero fatti sbarcare subito, tanto più che nessuno di loro è “portatore” di virus.
Tra meno di una settimana, però, i primi 146 soccorsi dalla Alan Kurdi, dovranno scendere. Poi toccherà agli altri, scippati al mare dalla Aita Mari e portati qui alcuni giorni dopo. Erano su alcuni dei quattro 4 barconi individuati dagli aerei di Frontex alla vigilia di Pasqua, uno dei quali abbandonato per cinque giorni in area di ricerca maltese, a ridosso di quella italiana, e conclusosi con la morte di 12 profughi e il respingimento dei superstiti in Libia.
Il team sanitario effettua quotidianamente la rilevazione della temperatura corporea e della saturazione di ossigeno, oltre a visite mediche. Dall’assistenza psicologica, alle informazioni sulle procedure per il diritto d’asilo o il ricongiungimento familiare per chi avesse parenti in Europa, le giornate trascorrono nel costante desiderio di poter lasciare la nave. Ma al momento senza tensioni. Per tutti vengono facilitati i contatti con le famiglie d’origine.
Nella prima settimana sono state effettuate 900 chiamate ai familiari, con cui i migranti rimangono in contatto quotidianamente anche grazie a internet. Non per tutti è facile. C’è chi deve chiamare un conoscente al villaggio perché porti buone notizie ai parenti. E chi piange a dirotto raccontando finalmente al telefono di essere salvo, finalmente lontano dalla Libia e oramai in territorio europeo, anche se su una nave dalla bandiera tricolore in acque italiane.
Il comandante della Rubattino, che per capelli bianchi e determinazione ha l’aria di chi ne ha viste molte, racconta trattenendo le lacrime l’emozione di questi giorni. “E’ un esperienza che con tutto l’equipaggio ricorderemo per sempre. Come si fa a pensare che questi disgraziati debbano essere abbandonati a se stessi, in Libia, e poi durante la navigazione”. I migranti, infatti, si sono offerti di collaborare alle attività di bordo. Dalla pulizia delle cabine, alle traduzioni multilingua. In gran parte sono bengalesi e nordafricani.
La Rubattino, costruita nel Cantiere Navale Ferrari di La Spezia nel 2001, può trasportare quasi 1500 e fino a 630 auto. Lunga 180 metri, larga 26, le sue 31 mila tonnellate di stazza, fanno sembrare delle barchette la Alan Kurdi e l’Aita Mari, i due vascelli umanitari grazie a cui i naufraghi sono stati salvati, e che sostano all’ancora poco lontano, in attesa di scontare anch’esse le due settimane di sorveglianza sanitaria.
“Ero in Libia per lavorare - racconta un ragazzo di 22 anni -, come tutti gli altri coperto dalla mascherina. Ma sono dovuto scappare e l’unico modo era salire su una barca”. Per quasi tre mesi, spiega un compagno di viaggio marocchino, “siamo rimasti in una casa di Zuara. Abbiamo pagato subito 2.500 euro, tutto quello che avevamo messo da parte, e perciò non ci hanno torturati. Ma non c’era quasi mai da mangiare e da bere”. Nei giorni precedenti alla partenza, “i guardiani parlavano sempre di un loro capo che si chiama “Ammu”. Parlavano sempre di lui, ma non sappiamo chi sia”. Il marocchino che fino al 2009 era a Rovigo e poi, racconta, è tornato nel suo villaggio dopo che erano morti i suoi genitori e sua moglie era rimasta da sola con due figli piccoli, invece è più informato. Sa che si tratta di uno dei Dabbashi, i boss del traffico di petrolio, armi ed esseri umani a Zuara. “Ammu” è stato liberato alcune settimane fa dopo un assalto alla prigione in cui era detenuto ed è rapidamente tornato a guidare la milizia e gli affari di sempre.
Tutti vogliono dimenticare la Libia, mentre guardano quella terraferma che ancora non gli è stata concessa.