Attualità

Il caporalato. Agro Pontino, anche i pensionati nei campi fra gli “invisibili”

Igor Traboni sabato 22 giugno 2024

Braccianti agricoli sotto il sole

Anche ieri, sotto i 36° gradi delle ore più calde, il paesaggio della pianura pontina si presentava uguale a quello degli ultimi 10-15 anni, da quando cioè i lavoratori stranieri a migliaia hanno iniziato ad arrivare da Asia e Africa e a lavorare nei campi a raccogliere meloni, cocomeri, ortaggi di ogni tipo. Dopo la morte di Satnam Singh, 31 anni, cittadino indiano scaricato davanti casa sua con un braccio mutilato da un macchinario per coprire le angurie e deceduto dopo 48 ore, c’è solo qualche controllo in più e più accortezza da parte dei “caporali”, oramai soprattutto indiani e bengalesi, a raccogliere di buon mattino i connazionali su improbabili furgoni per portarli nei campi a 3 euro l’ora, ma anche ad aspettare le donne italiane che scendono dai paesi dell’entroterra per raggranellare qualcosa, con i mariti in perenne cassa integrazione, e perfino pensionati di 70-75 anni: quest’ultima è una piaga iniziata soprattutto dopo il Covid, quando la necessità ancora più impellente di aiutare figli e nipoti senza più entrate, ha ridotto il reddito di quelle persone anziane arrivate nella pianura pontina subito dopo la guerra. Gente scesa dal Friuli e dal Veneto, abituata sì a lavorare la terra, ma ora è maledettamente pesante farlo a questa età. E così ricevono 200/300 euro al mese, “compensi” che questa estate tendono addirittura a scendere.

«Se io oggi vendo frutta di qualità delle nostre zone a 0.99 euro al chilo – racconta dietro la garanzia dell’anonimato il direttore di un supermercato con altre sedi nel Lazio – e comunque ci guadagno, dopo che questa cassetta ha fatto altri passaggi tra magazzino e distributore, si immagini al proprietario di un’azienda agricola quanto viene corrisposto e quanto può dare a chi la raccoglie».

Ma che l’orrenda fine del giovane indiano in qualche modo lascerà il segno – e forse anche delle soluzioni – lo si capisce dalle reazioni che continuano ad arrivare.

«Sono sconfortato dall’assenza totale di umanità – dichiara il vescovo di Latina, mons. Mariano Crociata –. I lavoratori stranieri sono trattati come oggetti. È l’ennesimo fatto doloroso di morte sul lavoro che ci colpisce, non meno delle altre volte, anzi ancora di più, proprio perché è l’ennesimo episodio a ripetersi, nonostante tutte le deplorazioni, le dichiarazioni che ad ogni ricorrenza di fatti del genere vengono fatte. La giustizia si sta occupando di quel che è accaduto e farà il suo corso, però l’occasione è opportuna per notare una cosa: nel generale disprezzo della vita umana, ci riempiamo la bocca, giustamente, di discorsi sulla dignità, ma la vicenda fa notare che l’immigrato, chi è straniero, non viene considerato come tutti gli altri. Giusto condannare un comportamento preciso ma troppo spesso gli immigrati vengono trattati da oggetti. Nessuno può sentirsi esonerato dall’appello che giunge alla coscienza direttamente da questo fatto, che impone un ripensamento serio da parte di tutti. Si rifletta e si cambi».

Gli fa eco Angelo Raponi, direttore della Caritas pontina: «Da almeno un decennio lavoriamo per il miglioramento delle condizioni di lavoro dei braccianti agricoli, per evitare ogni tipo di sfruttamento e ridare la dignità che spetta loro in quanto persone». Un lavoro di supporto anche contro la burocrazia, perché pure la Questura di Latina, come tante altre in Italia, fa aspettare un cittadino straniero fino a 6-10 mesi per un primo appuntamento e avviare la pratica per la regolarizzazione. E poi c’è “l’ordinario” delle Caritas parrocchiali, dei pacchi alimentari da consegnare a famiglie che non possono certo tirare avanti con i 3 euro l’ora, spesso con figli che neppure vanno a scuola e restano tutto il giorno attorno ai campi dove i genitori sgobbano. Anche la Federazione dei consultori di ispirazione cristiana del Lazio ieri è intervenuta: «Una “madre” terra così fertile e portatrice di frutti non può divenire luogo di morte e negazione di diritti fondamentali».

Interventi concreti li sollecita anche Coldiretti: «Per noi la qualità dei prodotti si misura anche sul parametro del rispetto della dignità del lavoro. Naturalmente servono controlli più serrati proprio per scovare chi opera nel sommerso e sfrutta i lavoratori. Tutto questa rappresenta una forma di concorrenza sleale nei confronti delle aziende regolari serie e sane: servono controlli rigorosi per tutelare anche i lavoratori e le imprese agricole oneste», afferma il presidente di Coldiretti Latina, Danile Pili.