Ricorso alla Consulta. Dj Fabo, il governo: l'aiuto al suicidio resti reato
Una seduta della Corte costituzionale (Ansa)
La notizia era attesa, e fortemente auspicata: alla fine il governo italiano ha deciso di costituire l'avvocatura dello Stato nel procedimento sollevato dalla Corte d'Assise di Milano davanti alla Corte Costituzionale per il processo a carico di Marco Cappato su dj Fabo. Un'ipotesi che fino all'ultimo l'associazione dei radicali Luca Coscioni aveva scongiurato, facendo addirittura appello all'esecutivo perché non intervenisse a difesa della costituzionalità del mero aiuto materiale al suicidio (così come sollevato dai giudici milanesi nell'ambito del procedimento a carico di Marco Cappato per l'aiuto fornito a Fabiano Antoniani per ottenere assistenza alla morte volontaria in Svizzera).
Ma cosa significa l'intervento del governo? Ad Avvenire lo aveva spiegato appena qualche giorno fa il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli. (LEGGI)
L'aiuto al suicidio in Italia è un reato. Va sempre punito? Ci sono situazioni nelle quali reato può non essere? La questione, che pareva di per sé improponibile, lo è diventata proprio col processo a Milano nel quale il radicale Cappato è accusato di aver agevolato il suicidio assistito in una struttura specializzata svizzera di Fabiano Antoniani (dj Fabo) il 27 febbraio 2017. Il Tribunale, orientato ad assolvere Cappato, ha infatti chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla questione. Di prassi, il governo dà mandato all’Avvocatura dello Stato di "difendere" la legge, in questo caso su un punto critico come la tutela della vita umana. Il termine per farlo scadeva proprio oggi e per il governo non intervenire sarebbe stata, secondo Mirabelli, «una vistosa mancanza».
«L’Avvocatura dello Stato interviene solitamente nei giudizi di legittimità costituzionale non solamente per “difendere” un interesse rappresentato dal governo ma anche per assicurare nelle questioni di maggiore rilievo la dialettica che è opportuno caratterizzi ogni procedimento giurisdizionale. Ciò è particolarmente rilevante in questo caso» spiega il costituzionalista Mirabelli.
L’articolo 580 del Codice penale punisce «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». Le fattispecie previste dal legislatore sono dunque due: la prima è la cosiddetta «istigazione al suicidio», ovvero la condotta attraverso la quale una persona – evidentemente per interessi propri – induce un’altra a togliersi la vita; la seconda è invece conosciuta come reato di «aiuto nel suicidio», e prevede la semplice collaborazione materiale all’estremo gesto di un soggetto, senza però aver prima contribuito a formare il suo convincimento (ipotesi che sembra aver messo in atto Cappato nella vicenda di Antoniani). La pena prevista va da 5 a 12 anni in caso di morte, e da 1 a 5 se – pur sopravvivendo – l’aspirante suicida si ritrova con lesioni gravi o gravissime.
Quanto alla libertà di morire argomentata dal Tribunale di Milano, che esisterebbe e andrebbe rispettata e accordata «ricordo che le convenzioni internazionali sui diritti umani affermano il diritto alla vita, all’integrità fisica e psichica di ogni persona e non il diritto alla morte - continua Mirabelli -. In ogni caso la questione è mal posta: la libertà di morire implica la pretesa che altri determinino o agevolino la morte, o rende legittima la cooperazione al suicidio? Sarebbe allora legittimo cagionare la morte con il consenso di chi la subisce ? Altra cosa è se è legittimo rifiutare atti medici dai quali dipende la vita, e se sia possibile prestare assistenza che allevi il dolore nel sopraggiungere della morte naturale».
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