Il personaggio. Zapata e il calcio formato famiglia
Il realismo magico di Gabriel Garcia Marquez applicato al calcio trova residenza nei gol di Duvàn Zapata, il centravanti colombiano dell’Atalanta che segna in tutti i modi e in tutti i laghi (cit sanremese, canta Valerio Scanu) e che domenica ha rifilato una quaterna al Frosinone andando a rete per la 7ª partita consecutiva, salendo a quota 14 gol in campionato, realizzando 13 gol con gli ultimi 15 tiri nello specchio della porta e infine riassumendo - con i suoi gol - l’equivalente realizzativo che 17 squadre su 20 del nostro campionato hanno sommato da dicembre ad oggi. Spaventoso, ebbene sì. Letterario, pure. Perché quella di Duvan Zapata è una storia da romanzo e - come capita nei libri di Marquez - la quotidianità viene trasfigurata mentre una serie di avvenimenti soprannaturali (e questi gol a ripetizione lo sono) si insinuano nelle pieghe del reale. Colombiano di Cali, infanzia non semplicissima vissuta per lo più in strada a rincorrere un pallone, “El Ternero” - Il Vitellino, così lo chiamavano - dopo gli inizi nell’América de Cali e un biennio di apprendistato in Argentina all’Estudiantes, arriva in Italia nel 2013, ma tra Napoli, Udinese e Sampdoria, non riesce mai a lasciare veramente il segno finché non trova maestro Gasperini a Bergamo e insieme a lui una dieta provvidenziale che lo aiuta a levarsi di dosso i chili superflui. È indubbiamente stata la settimana degli Zapata, perché nel Milan che ieri - battendo il Genoa - ha espugnato Marassi, gioca Cristian, cugino di primo grado di Duvan, cresciuto anche lui a Cali, ma nell’altra squadra, il Deportivo, e arrivato in Italia nel 2005, a Udine. Dal 2012 - dopo una tappa nel Villareal - gioca nel Milan e proprio ieri si è infortunato e sarà costretto a saltare almeno due-tre partite.
Gattuso però si potrà consolare con il nuovo acquisto, Lucas Tolentino Coelho de Lima, in arte Paquetà, protagonista col Genoa di un trucchetto da giocoliere, una “lambreta” (la fa Neymar), evoluzione moderna della “Cuautéminha”, la giocata che permette di saltare l’avversario con il pallone incastrato tra i due piedi che una ventina d’anni fa - ai Mondiali di Franci ’98 - l’attaccante messicano Cuauhteoc Blanco rese celebre. Ora tutto lascia pensare che i tifosi del Milan - “traditi” da Higuain e in attesa del polacco Piatek - debbano aggiornare e modificare il famoso coro - «Siamo venuti fin qua/per vedere giocare Kakà»; mantra dell’ultimo vero periodo di gloria rossonera quando il brasiliano timorato di Dio ed elegante come un gabbiano incantava San Siro. O meglio: musica e parole possono restare, a patto che si sostituisca Kakà con Pauquetà, 21 anni, 35 milioni di buoni motivi (i soldi spesi dal Milan) per dimostrarsi il vero colpo del mercato di gennaio. Originario dell’isola di Paquetà, nella scelta dell’apelido - il soprannome che caratterizza ogni giocatore brasiliano - il ragazzo ha adoperato lo stesso sistema che si usava nelle caserme italiane qualche tempo fa, quando per comodità ci si chiamava l’uno l’altro con i nomi delle città da cui si proveniva, «Vieni qua Catanzaro», o anche «Dove è finito Livorno?». Per precisione geografica: Paquetà significa “molte conchiglie” ed è un’isola della Baia di Guanabara, davanti a Rio de Janeiro.
Il neo-milanista è un predestinato. Centrocampista d’attacco “costruito” in laboratorio, irrobustito nelle giovanili del Flamengo da integratori e tanta palestra, Paquetà è cresciuto nel mito di Kakà. nel suo gioco riassume le geometrie e la fibra del belga De Bruyne (perno del City di Guardiola) con lo spirito del “Fùtbol bailado” (ma mai fine a se stesso) che era la caratteristica di Kakà e dei molti che come lui pensano che il calcio sia prima di tutto divertimento. E visto che a fratel donato non si guarda in bocca ecco che con Paquetà (ri)torna la moda del fratello in pacco dono, così come capitò in passato per Hugo, Digao e Chedric, fratelli rispettivamente di Maradona, Kakà e Seedorf, figlio di un talento minore. Con Lucas Paquetà arriva infatti Matheus, di due anni più grande. Giocherà nel Monza, in serie C. Uno a Milanello, l’altro a Monzello: e così la famiglia Paquetà cercherà fortuna in Italia. Carriere da mediocri, senza respiro, percorsi professionistici dal fiato corto: sono i tratti di queste storie di fratelli. La più significativa quella di Hugo Maradona, botolotto ringhioso dall’andatura rotolante che solo pochi fortunati hanno avuto il piacere di vedere con la maglia dell’Ascoli, nell’anno di grazia 1987-’88. Hugo era un trequartista-paracarro, nel senso che giocava da fermo. Diego lo annunciò giurando che Hugo era più forte di lui. C’è gente che non ha ancora smesso di ridere.