Centenario. Tanto agra fu la vita di Bianciardi che anche nella fama fu controcorrente
Luciano Bianciardi (1922-1971)
Persino nel centenario della nascita, che rintoccherà il 14 dicembre, Luciano Bianciardi non è stato fortunato, dovendo condividerlo col coetaneo Pier Paolo Pasolini, ormai consacrato come un classico negli annali della nostra cultura, ove per altro ha sempre trovato – pur nel fuoco della controversia – ampio rilievo. Il quale Pasolini è stato anche favorito nelle continue e talvolta enfatiche celebrazioni di quest’anno dal fatto d’essere nato nove mesi prima dello scrittore di Grosseto. Agra di sicuro è stata la vita di Bianciardi, per ripetere il titolo – ma invertendo il rapporto tra aggettivo e sostantivo – del suo romanzo forse più noto apparso nel 1962, un anno prima che s’imponesse con violenza iconoclasta il Gruppo 63. Vero è, però, che le trasgressioni dei neoavanguardisti furono tutte di ordine prosodico, sperimentate nei paradisi artificiali della forma e promosse da uomini che vollero da subito dare senza esitazioni l’assalto alla cittadella del Potere culturale, conquistando con una certa facilità posizioni di primo piano sui media e nelle Università. Furono trasgressioni che insomma, a differenza di quelle di Bianciardi, non pagarono mai dazio. Agra – ripeto – fu la sua vita: di sapore acido, per restare proprio al senso letterale del termine. Ma anche perché gli ritagliò un ruolo molesto e sgradevole (agro, appunto) non solo in quell’ambiente milanese, cui era approdato dalla provincia, di giornalisti, funzionari editoriali, pubblicitari (e cioè “terziari”, se non addirittura “quartari”, “fannulloni frenetici”, come gli piacque apostrofarli), mentre gli consentiva – da irriducibile anticonformista sgradito a destra e a sinistra – parole di suono aspro e stridente (ancora una volta agre), severe e mordaci. Come ha scritto Giuseppe Muraca nel suo Luciano Bianciardi. Uno scrittore fuori dal coro (2010), questo singolare intellettuale può essere inserito a buon diritto in quella che venne definita, nei primi anni Sessanta, la generazione «degli anni difficili», che cioè «ha offerto un contributo determinante alla liberazione del nostro paese dal nazifascismo, alla ricostruzione e al rinnovamento della società italiana e alla fondazione del sistema democratico». Occorre aggiungere però che, tra i figli di quella generazione, egli fu moralmente – mi si perdoni il bisticcio semantico – il più “difficile”: ostico, refrattario a ogni consenso, indifferente al successo (che, a un certo momento, fu grandissimo), ingovernabile e imprevedibile. Dicevo della grandissima fama di Pasolini rispetto a Bianciardi: cosa che in qualche modo sorprende, qualora si consideri che, a differenza dello scrittore friulano, il dimenticatissimo maremmano funziona molto meglio come autobiografo della nazione e come antropologo delle patologie culturali italiane. Arriva a confermarcelo un delizioso volume pubblicato di recente da Neri Pozza con un’introduzione di Pino Corrias, che ebbe il grande merito di sottrarre Bianciardi all’oblio con una bella biografia, Vita agra di un anarchico (1993). Sto parlando di Non leggete i libri, fateveli raccontare (pagine 112, euro 13,50), in cui si raccolgono tutti gli articoli pubblicati dallo scrittore, che aveva rifiutato una collaborazione fissa al “Corriere della Sera”, sul settimanale “ABC”, promotore di prima fila di alcune delle più controverse battaglie civili dell’epoca. Domani, poi, arriva in libreria per minimum fax anche il combusto Aprire il fuoco, con profilo bio-bibliografico di Fabio Stassi, un articolo di Oreste Del Buono del 1976 come prefazione e una postfazione di Michele Cecchini dettata all’uopo, ove Bianciardi rivisita le sue personalissime “Cinque giornate di Milano”, consumatesi nel marzo del 1959: ultimo romanzo scritto con lo spirito da “camicia rossa”, infiammato com’è dall’ilare e scontroso fuoco d’una ipotetica, ma sempre più elusa e delusa, controstoria d’Italia, contemplata agonisticamente da un tempo fuori dal tempo che coincide col suo Risorgimento. Dicevo di Non leggete i libri, fateveli raccontare, dedicato ironicamente a tutti coloro, fra i giovani d’oggi, che “Madre Natura” non ha gratificato in nulla. Individui perfetti per incarnare il più vacuo dei ruoli, quello dell’intellettuale: «Che cosa sia un intellettuale, nessuno sa con precisione, e infatti neanche noi abbiamo tentato di stabilirlo. Anzi, che il concetto resti nel vago giova al nostro proposito: fare di un qualsiasi giovane sfornito di talento un uomo di successo nel mondo della cultura». Del resto, ci troviamo in un Paese in cui «quasi tutti quelli che portano la cravatta vengono chiamati “dottore”». Bianciardi non si risparmia nel fornire regole chiare che orientino il modo di presentarsi e comportarsi del giovane privo di talento per centrare il suo scopo. Né dimentica di allestire il vocabolario su cui si fondano quelle «frasi-cerotto, indispensabili per dire e insieme non dire»: «Pur nei suoi limiti», «anche se non siamo perfettamente d’accordo», «lasciamo stare per un momento il...», «ammesso e non concesso», «si potrebbe quasi dire», «un qualcosa d’indefinibile», «in qualche misura», «non è impossibile », «un po’ troppo», «un po’ poco». Largo spazio ai dettagli, anche quelli più frivoli: «Sarà bene munirsi di pipa, e magari imparare a fumarla, perché è un ottimo riparo. Quando manca la battuta, o si vuole prendere tempo, ecco pronta la pipa». Nel 1964 Goffredo Parise pubblicava Il padrone: una crudelissima favola che portava con sé una feroce satira di quella degradazione antropologica che aveva tradotto la logica dell’industria in una sintassi del dominio e della sottomissione. Le pagine di Bianciardi paiono rappresentare la risposta saggistica a quel romanzo: «l’intellettuale di successo non va in ufficio, ci passa. Non ha la segretaria, ma usa quella degli altri. Non evita il padrone, lo cerca». Resta ancora utile, per chi voglia approfondire lo scrittore che si dissipava sui giornali, Bianciardi. Una vita in rivolta (2018) di Sandro Montalto.