Ogni anno, il 9 febbraio, è la Giornata mondiale dedicata alla lingua greca e, mentre da un lato aumenta lo sconforto per la sempre minore considerazione che il nostro Paese dedica allo studio di questa cultura, oltre che alla lingua, soprattutto a causa delle eccessive frammentazioni disciplinari dei Dipartimenti, che spesso escludono il greco, dall’altro si aggiunge la gioia per i tanti eventi promossi in queste ore, di cui molti in collaborazione con l’Ambasciata di Grecia in Italia. Come ricorda Francesco De Martino, grecista pugliese, professore ordinario emerito e un tempo allievo della scuola filologica barese di Carlo Ferdinando Russo, uno dei primi ad aver trasformato l’insegnamento della grammatica greca in una creativa e feconda ripartizione di parole fra dialetti di area eolica, ionica e dorica: “Non ce ne rendiamo conto, ma senza i grecismi e senza i latinismi non riusciremmo quasi più a dire nulla”. Ci son tanti libri che sviscerano l’elogio della cultura greca e pochi dedicati autenticamente alla lingua, senza farne per forza un elogio, che poi – alla fin fine - rischia di diventare insopportabile per gli studenti. Col greco si descrivono tante sfumature del cuore e della mente (che, peraltro, per i Greci son quasi la stessa cosa, come ci ricorda la parola
thymos), ma pochi sanno che il greco ha molto a che fare col ridere. In un saggio per “Athanor”, una serie annuale diretta da Augusto Ponzio per i tipi di Mimesis, De Martino ha evidenziato che non solo si “muore dal ridere”, ma per i Greci si “nasce dal ridere”. In un antico papiro si legge infatti che il mondo sarebbe nato con sette risate e a ogni risata nacque grandiosamente qualcosa: il tempo, l’acqua, il
nous, la luce, la
moira, la generazione. In fondo, come noto, ridere è sì la regola degli dei, ma anche, come ricorda Aristotele, un buon marchio di fabbrica dell’uomo, poiché “solo l’uomo, fra tutti gli animali, ride”. E a questo passo, un tempo splendidamente tradotto da Mario Vegetti, alludono sia Rabelais, nel frontespizio del
Gargantua (1534), sia Bergson, nel saggio
Il Riso (1900). “Ridere – precisa De Martino – è un atto personale, ma un tempo ritenuto poco eroico, come spiega uno scolio all’
Iliade, dove Ettore sorride nel famoso addio ad Andromaca. Eppure il ridere, anche se poco eroico, è decisamente una cosa seria, in Grecia, tanto che a Sparta diventa addirittura una divinità; anche se, qualche volta, con troppa abbondanza, può essere una malattia, come per gli Abderiti (così dice Luciano, nell’opuscolo
Come si scrive la storia). Insomma… Ridere o non ridere? Questo è il problema e di certo Pitagora preferì non ridere o, perlomeno, non farsi mai vedere durante una risata. E così, mentre i commediografi avevano intuito subito la potenza del riso, i filosofi ci arrivarono un po’ più tardi, anche perché, per esempio, per Anassagora o per Aristosseno ridere era vietato, soprattutto con gli allievi, come testimonia Eliano. Tuttavia, come si legge nel piccolo e brillante saggio di Francesco De Martino, che si rifà a sua volta a grandi pubblicazioni come quella notissima di Carlos Miralles,
Ridere in Omero, o come quella di Monique Trédé,
Le Rire des Anciens, ma anche quella uscita a Cambridge di Alexander Mitchell,
Greek Vase-Panting and the Origins of Visual Humour, il riso, pur se valorizzato tardi dalla filosofia, stette molto a cuore alle dee, come nel caso di Afrodite, dove nell’Inno a lei dedicato è scritto “ride sempre”. Ma ridono anche Atena nell’
Iliade e Calipso nell’
Odissea! E in alcuni casi riesce a ridere addirittura Demetra, la quale, per definizione, è la dea “senza sorriso”, proprio perché ha perso per sempre sua figlia Persefone. Apollodoro racconta che la vecchia Iambe, anche con qualche oscenità, strappò almeno una risata alla dea. E’ bene dunque che i giovani studenti sappiamo come la cultura greca, prima in tantissime cose, ha saputo analizzare anche la profondità del ridere, un atto rivoluzionario, che è sempre stato più apprezzato dai giovani, come seppe notare Aristotele nella
Retorica, ma anche Platone, quando – nelle
Leggi – parlò della preferenza dei ragazzi verso la commedia e dei bambini verso gli spettacoli giocosi e ridanciani dei burattini. Resta il dispiacere per non avere fra le mani quel capolavoro greco che sarebbe stato il II libro della
Poetica, forse interamente dedicato al riso, anche se, almeno in apparenza, Aristotele non amò il modo in cui i commediografi seppero usarlo. Fortunatamente possiamo leggere, anche in tal senso, Umberto Eco, che fra le sue tantissime qualità, sappiamo bene come amava la lingua greca, consigliando
ai professori di non iniziare dal complicato periodo arcaico, ma dal semplice greco dei Vangeli.