Agorà

LA POLEMICA. Quelli che... tifavano per Khomeini

Edoardo Castagna mercoledì 11 febbraio 2009
Le sbandate storiche della sinistra italiana, negli anni Settanta, sono note: dall’entusiasmo per la Rivoluzione culturale e il Libretto rosso di Mao, a quello per le "mirabili" imprese di Ho Chi Minh e Pol Pot. Ma non era necessario che vi fosse un comune – realmente e ipoteticamente – retroterra ideologico marxista per accendere le speranze dei gauchiste nostrani: afflitti da un odio cieco verso tutto ciò che era vicino – la nostra società, il nostro sistema economico, la nostra religione, la nostra cultura –, s’infiammavano per qualunque cosa fosse o apparisse altro. Così, quando trent’anni fa l’ayatollah Khomeini fece il suo trionfale ritorno nell’Iran che aveva appena scacciato lo scià per instaurare la Repubblica islamica, dalle colonne della stampa di estrema sinistra si levarono gridolini estasiati. Capofila dei pasdaran nostrani era Lotta continua: il quotidiano a Teheran aveva inviato un Carlo Panella che non perdeva occasione per definire «stupendo» tutto quanto osservava – la cacciata dello scià, la guerriglia nelle strade, i processi a porte chiuse, le esecuzioni sommarie, l’instaurazione della più rigida shari’a – in reportage trionfalmente intitolati «Una giornata in cui inizia il cammino della vittoria», oppure «In quattro milioni riempiono il vuoto di potere», «Il popolo assapora la vittoria impossibile». Un entusiasmo che, alla lunga, stancò gli stessi lettori della testata: va bene che gli ayatollah erano dei buoni anti-americani, ancorché islamici, e non dei retrogradi filo-capitalisti come i cattolici di casa nostra, però sempre dediti alla religione "oppio dei popoli" erano. E infatti si mobilitarono, i lettori, contro Lotta continua in una lettera intitolata con elegante ironia «Se l’ayatollah alza la sottana, Lc diventa musulmana?». Dubbi liquidati come echi veteromarxisti dalla redazione. Appena un filo più misurato Il Manifesto, che pure fu ugualmente sedotto dal movimento di massa in azione a Teheran. Certo, il fatto che tale massa fosse ispirata da una religione mandava «in crisi epistemologica» i compagni, che di conseguenza blindavano il loro entusiasmo per il barbone di Khomeini con la constatazione che ai fatti d’Iran «è difficile applicare le nostre categorie occidentali». Il mensile culturale Re nudo, dal canto suo, teorizzava: «Il cosiddetto dibattito sulla spiritualità in passato aveva suscitato perplessità. Ma l’evolversi della situazione persiana ha fatto diventare il rapporto tra liberazione e spiritualità un argomento attuale». Sempre, beninteso, purché la spiritualità non sia quella cristiana. L’atteggiamento dell’estrema sinistra rappresentò soltanto la punta avanzata di una simpatia, di una benevolenza riservata agli ayatollah anche da gran parte della pubblicistica moderata – per quanto riuscisse a essere davvero 'moderata' la stampa italiana degli anni Settanta. Ecco allora che il Corriere della Sera riportava una serie di corrispondenze del filosofo Michel Foucault. In teoria ottima scelta, visto che si trattava dell’autore della Storia della follia; invece di notare quella dei fanatici islamici al seguito di Khomeini, però, Foucault sembrò volersi esercitare in proprio. E così la lotta politica in atto in Iran, subito prima la cacciata dello scià, veniva descritta il 22 ottobre del 1978 in questi termini: «La situazione sembra essere sospesa a una grande tenzone tra due personaggi dal blasone tradizionale: il re e il santo; il sovrano in armi e l’esule inerme; il despota con, di fronte, l’uomo che si erge con le mani nude, acclamato da un popolo». E in effetti Khomeini veniva quasi unanimemente descritto, dalla stampa dell’epoca, come un "santo", mezzo profeta e mezzo eremita; si leggevano corrispondenze come quella di Paolo Patruno su La Stampa del 25 gennaio 1979, che informava i lettori sulla monacale scansione della giornata dell’"esule inerme" a Neauphle-le-Château, appena fuori Parigi: «La giornata dell’ayatollah comincia alle 3, per la prima preghiera e la meditazione, che durano fino alle 7; poi un breve riposo fino alle 9, quando iniziano le visite e le consultazioni, interrotte poi dalla preghiera di metà giornata. Il pranzo è frugale, ridotto al piatto nazionale...». Sul Corriere Renato Ferraro non era da meno: «Gli erano state offerte ville lussuose, ma aveva rifiutato: 'Voglio una casa semplice, una vecchia bicocca'». E via di questo passo; d’altra parte, per tornare a Foucault, si parla del «vecchio santo in esilio a Parigi». Lo Stato che sarà creato da un santo, naturalmente, sarà uno Stato perfetto: il filosofo francese già pregusta la futura Repubblica islamica, dove «le libertà saranno rispettate; le minoranze saranno protette e libere di vivere a modo loro, a condizione di non danneggiare la maggioranza; tra uomo e la donna vi non vi sarà disuguaglianza»... Insomma, concludeva Foucault il 26 novembre, sarà «l’insurrezione di uomini dalle mani nude che vogliono sollevare il peso formidabile che grava su ciascuno di noi... È forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari». Il profetismo khomeiniano finì per contagiare lo stesso Foucault: «Sento già degli europei ridere. Ma io so che hanno torto». Un entusiasmo contagioso. Anche firme insospettabili si sentivano in dovere, magari parlando di tutt’altro, di versare il proprio obolo al tifo filo-khomeinista: Leo Valiani, Corsera del 3 gennaio 1979, parlando di democrazia in Occidente e Guerra fredda, osserva per inciso che «nell’Iran i giorni dell’assolutismo imperiale sembrano contati». Ancora freddino, rispetto a Francesco Alberoni, che sulla stessa testata il 1 gennaio aveva scritto: «La liberazione cessa di essere un prodotto della dominazione culturale dell’Occidente e diventa una autoliberazione nel nome del Corano... La rivoluzione iraniana è la manifestazione più spettacolare della rinascita islamica. Una civilizzazione culturale infatti si espande quando è in condizione di assorbire i movimenti che sorgono per sfidarla ed è in una fase di rinascita quando si dimostra capace di assorbire i movimenti delle altre civilizzazioni». Eppure qualcuno capace di leggere fin dal primo momento i pericoli nascosti – nemmeno troppo – nell’islamismo al potere ci fu. Sul Nouvelle Obsevateur Maxime Rodinson annotava, sempre nel gennaio del ’79: «Khomeini non è Robespierre o Lenin, forse nemmeno Savonarola, Calvino o Cromwell. Ma può tendere al Torquemada». E già nell’estate Oriana Fallaci avrebbe affrontato in un celebre faccia a faccia l’ayatollah, quello durante il quale lo sfidò sfilandosi il chador cui era stata costretta. Al ritorno dall’Iran, scrisse: «A me sembra fanatismo del genere più pericoloso. E cioè quello fascista». Che aveva mandato in visibilio Lotta continua: convergenze casuali?