Agorà

Reportage. Palestina, la sfida di Battir il villaggio dell'«Intifada verde»

Riccardo Michelucci venerdì 3 gennaio 2020

Una veduta aerea del villaggio di Battir con i suoi frutteti e i campi di grano dove lavorano gli agricoltori palestinesi, finora a riparo dallo spettro del Muro

Lungo la strada che collega Betlemme a Hebron, a sudovest di Gerusalemme, un palcoscenico di rara bellezza domina la valle di Makhrour. Il verde della vegetazione e degli ulivi si alterna alla terra color ocra lasciando intravedere file di terrazzamenti antichissimi che si srotolano a perdita d’occhio. Appoggiato sulla schiena di due colline sorge il villaggio di Battir: chilometri di terrazzi sostenuti da muretti a secco risalenti al III millennio avanti Cristo, al tempo dei Cananei. Appezzamenti di terra irrigati da un acquedotto romano scavato nella roccia e alimentato da sorgenti millenarie. L’acqua scorre all’ombra di alberi di ulivo e frutteti, lungo piccoli percorsi ricavati nella pietra, raggiunge le terrazze e irriga centinaia di ettari di orti. Nel vasto assortimento di verdure locali, il frutto più apprezzato è la melanzana, la “ betinjan battiri”, famosa in Palestina e in tutto il Medioriente per il suo sapore e la sua qualità. Secondo molti libri di storia Battir è il luogo dove si insediarono la comunità bizantina e quella islamica dopo la sconfitta della rivolta ebraica contro i romani (132-136 d.C.). In un passato più recente il villaggio fu soprannominato «il cestino di verdure» di Gerusalemme perché attraverso la ferrovia costruita dagli ottomani ai piedi della valle riforniva i mercati della Città Vecchia con grandi quantitativi di frutta e ortaggi. Anche le donne del villaggio camminavano per ore trasportando in città grandi cesti con i prodotti della terra.

Oggi Battir è il cuore della cosiddetta “Intifada verde”, una forma di resistenza nonviolenta basata sulla tutela dell’ambiente e del patrimonio storico dell’area. I suoi abitanti combattono da anni una battaglia silenziosa e ostinata senza armi, né pietre, né manifestazioni ma impugnando carte topografiche, strumenti di rilevazione, pale e picconi. «Tutto ciò che ci circonda è la prova dell’esistenza di un insediamento nell’antichità e rappresenta una ricchezza di valore mondiale che dobbiamo conservare», ci dice Hassan Muamer, giovane ingegnere ambientale che ci accompagna a visitare il suo villaggio. Da tempo sia la testimonianza di un lontano passato che le terre agricole circostanti sono in grave pericolo.

Battir è infatti situato in prossimità del confine con la Linea Verde stabilita dall’Onu del 1948. Da quasi vent’anni vive sotto la costante minaccia che il muro costruito da Israele in Cisgiordania possa arrivare fin qua, privando gli abitanti delle loro terre e danneggiando irreparabilmente l’antico sistema di irrigazione.

Anni fa Muamer guidò un gruppo di professionisti, ingegneri ambientali, tecnici e attivisti del villaggio che iniziò a presentare petizioni e ricorsi alla Corte Suprema israeliana per prevenire la confisca delle terre e la costruzione del muro. Con la loro caparbietà riuscirono ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e ottennero persino il sostegno di un organismo governativo, la Israel Nature and Parks Authority. «Denunciammo i danni che il muro avrebbe causato al sistema sociale ed ecologico di Battir, alle sue terrazze di epoca romana, al sistema idrico, all’agricoltura e alla popolazione che se ne è presa cura per generazioni», spiega. Se la barriera di cemento alta otto metri che serpeggia ovunque in Cisgiordania fosse arrivata anche qua avrebbe privato gli abitanti di parte delle terre agricole che si trovano al di là della Linea Verde, in territorio israeliano. In base a un accordo firmato dopo la guerra del 1948-1949 i residenti di Battir hanno il diritto di raggiungere quelle terrazze coltivate attraversando i binari del treno.

«Ci fu assicurato che il muro non avrebbe bloccato l’accesso alle terre ma noi preferimmo non fidarci, perché nei villaggi vicini aveva già provocato lo sradicamento di centinaia di ulivi e la confisca di molti terreni». Per fermare la costruzione del muro e salvaguardare l’antico sistema di irrigazione del villaggio e le sue terrazze coltivate c’era un unico modo: ottenere l’inserimento di Battir tra i siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco in pericolo. «Sembrava un’impresa quasi impossibile», ricorda Muamer. «Gli ostacoli burocratici erano talmente tanti, ed erano aggravati dal fatto che la Palestina non è uno stato sovrano. Eppure ci siamo riusciti: è stato quasi un miracolo».

L’ostinazione degli abitanti di questo piccolo villaggio contadino fu premiata nell’estate del 2014, quando arrivò finalmente il riconoscimento da parte dell’agenzia dell’Onu per l’educazione e la cultura. L’Unesco si pronunciò «con urgenza », poiché si rese conto che le valli terrazzate rischiavano danni irreversibili e comprese che quel paesaggio era diventato vulnerabile sotto l’impatto delle trasformazioni socio-culturali e geopolitiche.

Da allora, la speranza dei seimila abitanti di Battir è che questo riconoscimento ponga fine una volta per tutte alla lunga battaglia contro il muro. Ma il villaggio resta un obiettivo strategico, perché nella valle sottostante passa ancora oggi la tratta ferroviaria che collega Gerusalemme a Tel Aviv. «Il nostro futuro continua a essere a rischio », ci confessa Muamer, mostrandoci una piscina romana dalle pareti rivestite di mosaici, di fronte alla quale una vista mozzafiato si spalanca sulla valle. «La burocrazia militare israeliana ci vieta di costruire in gran parte della vallata allora noi continuiamo a seminare e a coltivare piante da frutto, e restauriamo vecchi sentieri abbandonati per incentivare la gente a tornare nelle proprie terre».

Gli abitanti proseguono la loro battaglia silenziosa attraverso le attività dell’«ecomuseo del paesaggio», un progetto gestito dalla comunità locale che vuole preservare l’eredità storico-culturale del luogo sviluppando progetti di ecoturismo e di turismo sostenibile, promuovendo la coltivazione di prodotti biologici, i percorsi turistici a piedi e in bicicletta tra i resti archeologici. «Battir rappresenta un modello di speranza nel futuro – conclude Muamer – e noi ci impegniamo ogni giorno per far sì che continui a esserlo».