Musica. Nick Cave, la Bibbia come “ossessione”
Il cantautore, scrittore e compositore australiano Nick Cave, 63 anni
L’aurea sulfurea l’ha dismessa da tempo. Oggi Nick Cave - australiano, classe 1957, una delle voci più significative (e inquietanti) della musica contemporanea - è un signore avvolto in una composta, sofferta, eleganza. L’hanno potuto 'assaporare' i fan che domenica notte hanno ascoltato Idiot Prayer. Alone at Alexandra Palace, il film-concerto che l’artista ha registrato quest’estate a Londra, mandato in onda da Radio3. Ultimo atto di una decennale carriera nel quale Cave ha ripreso tra le dita le sue canzoni, le ha spogliate di tutto – incisioni, arrangiamenti, orpelli – per riconsegnarle alla loro nuda essenzialità. Quale verità ci rivelano? Chi è oggi l’artista, da sempre lettore instancabile e vorace del Vangelo di Marco, nelle cui pagine trova la voce di Cristo? («Cristo mi ha parlato attraverso il suo isolamento, attraverso il peso della sua morte, attraverso la sua rabbia, attraverso il suo dolore?»), l’autore che «non ha mai smesso di farsi ossessionare dalle Sacre Scritture», come ci dice Massimo Granieri, passionista e firma dell’Osservatore Romano, profondo conoscitore degli intrecci tra musica e spiritualità. Una cosa è certa: una volta toccati da Cave, si rimane come intrappolati nel suo mondo poetico, contorno, potente e visionario. «Ho scoperto Nick Cave nel 1992, grazie a un amico che mi fece ascoltare Henry’s Dream, folgorandomi all’istante – racconta Armando Buonaiuto, curatore di Torino Spiritualità –. I primi accordi di Papa Won’t Leave You Henry ebbero l’effetto di un imprinting che dura tutt’ora, e che mio malgrado fa sì che io riconosca Nick Cave soprattutto nel furore tagliente, convulso e allucinato che attraversa quell’album. E che rimbomba in alcuni lavori precedenti, dove testi e arrangiamenti si muovono su terreni ancora più scabri e apocalittici. Il Nick Cave veterotestamentario insomma, che parla con parole antiche, che allaccia salmi e boati profetici e che, se si affaccia sul Nuovo Testamento, lo fa perché sedotto dall’urgenza spezzata del Vangelo di Marco o da sprazzi di grazia che, più che dalle Scritture, sembrano saltar fuori dalle pagine di Flannery O’Connor. Però, malgrado questo attaccamento originario, come potrei non amare il Nick Cave di oggi e la sua voce sessantenne passata attraverso la porta più stretta che io possa immaginare?». Appunto, Cave oggi. L’autore ustionato dalla perdita più straziante, una perdita che ha invaso, quasi ossificato la sua musica, facendola abitare dall’urlo del dolore.
«Se penso alla bellezza siderea di un album come Ghosteen – continua Buonaiuto – mi viene in mente questa frase di Confucio: a sessant’anni il mio orecchio si rese ricettivo. Credo valga anche per Nick Cave. Il suo orecchio è più ricettivo ora di quanto sia mai stato, spalancato dall’urgenza di cogliere un suono umano dove ci aspetteremmo solo silenzio». Eppure non è un mondo solo desertificato. «Perdendomi mi sono ritrovato» canta Cave nell’inedito in Euthanasia, brano che allude a un’esperienza intima di morte e rinascita interiore: la perdita più terribile e lacerante si ricompone in un’epifania dentro e oltre il tempo. Perché le canzoni – questi 'giocattoli' fragili, apparentemente evanescenti eppure misteriosi, nascondono un segreto. «Che cosa è una canzone se non un richiamo all’aldilà?», si legge in Stranger than kindness, libro dello stesso cantante appena pubblicato da Il Saggiatore (pagine 276, euro 38,00). La stessa esperienza sul palco è invasa da qualcosa di misterioso: «Non dovevo fare altro che salire sul palco e lasciare che l’anatema di Dio mi ruggisse dentro, si impossessasse di me». Stranger than kindness è un viaggio nel mondo poetico di Cave, in quell’universo, ribollente e caotico, che precede e accompagna la nascita della sua musica. «Dietro la canzone c’è una quantità enorme di oggetti secondari – disegni, mappe, liste scarabocchi, fotografie, dipinti, collage, schizzi e bozzetti – che è proprietà segreta e amorfa», scrive l’artista australiano. Stranger than kind è la trascrizione iconografica delle sue ossessioni. Non a caso ospita tantissime immagini sacre, dalla Natività alla Crocifissione. Ma anche i disegni dello stesso Cave. I suoi taccuini pieni di una scrittura fitta. «Eccoti nuovo, rifatto – scrive Cave –. Ti sei ricostruito. Ma sei diverso. Sei diventato un noi, e ciascuno di noi è l’altro: una grande comunità dal potenziale strabiliante che tiene alto il cielo con il suo soffrire, che tiene le stelle al loro posto con la sua sconfinata gioia, che colloca la luna entro il raggio della sua gratitudine, che ci posizione nel locus del divino. Insieme noi rinasciamo».
Ma attenzione. Con Cave nulla è scontato o rassicurante. Granieri apre una prospettiva inedita: «Dal mio punto di vista, Nick Cave è profondamente ateo, rimane cioè dentro la sua laicità. Come sempre è ossessionato dalla Bibbia, affonda nelle Sacre Scritture, usa il simbolismo religioso per raccontare la sua storia personale. I suoi ultimi lavori, in particolare sono intrisi di dolore personale per la perdita del figlio, Cave ha bisogno fisico, fortissimo di qualcuno che traduca questa sofferenza e allora quale mezzo migliore se non la sacra scrittura? Vuole riscattarsi dal dolore ma la forza la trova dentro di sé, non al di fuori di sé. Cerca questa forza dentro di sé: è questo è un atteggiamento profondamente laico, che esprime poca fiducia verso un aldilà che non riesce a definire. Come un figlio che va in cerca di suo padre ma non riesce assolutamente a raggiungerlo. Certo il discorso con Dio rimane sospeso, è una partita ancora aperta». È l’alleluia di Cave.