Novecento. Nelle lettere di Zweig la parabola triste dell'ebreo assimilato
Stefan Zweig (1881-1942)
Fa una certa impressione leggere queste Lettere sull’ebraismo a Martin Buber, Albert Einstein, Sigmund Freud e Chaim Weizmann, per non citare che i giganti del XX secolo, scritte da parte di un loro pari, lo scrittore viennese Stefan Zweig, e or ora pubblicate da Giuntina (a cura di Stefan Litt, ben tradotte da Francesco Ferrari, pagine 358, euro 20,00). L’impressione è di tristezza, perché in tali missive risulta impossibile separare la vitalità dell’intellettuale colto e onnivoro, dell’imprenditore culturale capace di coltivare legami e fare rete con le migliori menti filosofiche e scientifiche del secolo breve, separare tutto ciò, dicevo, dalla sua fine, dal gesto del suicidio compiuto nel febbraio 1942 in Brasile, insieme alla seconda moglie, al termine di una disperata fuga in Sud America negli anni in cui in Europa si consumava la tragedia della Shoah.
Nessuno meglio di Zweig ha cantato “il mondo di ieri” alla vigilia della catastrofe del secondo conflitto mondiale né mostrato con più efficacia il capovolgimento destinale dell’Austria felix fagocitata dai demoni tedeschi tra le due guerre; e in quel frangente storico nessuno ha illuminato la dissipazione della memoria e dell’ethos europeo più dell’autore dell’indimenticabile Mendel dei libri. Amante di libri e produttore di libri, scrittore e drammaturgo egli stesso, Zweig dovette arrendersi, in quella fatidica primavera 1933, dinanzi ai roghi di carta stampata – per lo più libri di ebrei – che venivano fanaticamente accesi nelle principali città della sua patria d’elezione. Fu costretto sulla via dell’esilio, come molti altri naturalmente, ma lui in cuor suo non credeva che esistesse “un esilio”.
L’esilio è nozione che un ebreo spiega e accetta a partire dalla storia del proprio popolo: l’esperienza dell’Egitto, i salmi biblici che evocano Babilonia, i poemi sefarditi di un Yehudà haLevi che guarda con struggimento a Sion. Ma Zweig, pur avendo lavorato gomito a gomito con Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, e dopo una breve infatuazione verso il sionismo culturale predicato da Buber, abbandonò decisamente ogni velleità di ritorno nella terra dei padri: la sua patria era il mondo tedesco, la lingua tedesca, la cultura tedesca e l’unica idea (supposta) ebraica, anzi l’unico spazio identitario nel quale volle collocarsi, fu quello del cosmopolitismo.
L’ebreo non è forse un cittadino del mondo? E un cittadino del mondo non ha patria, non ha nazione, non ha lingua se non quella in cui, casualmente, si trova... Ma questo romanticismo a buon mercato nell’Europa degli anni Trenta stava evaporando come nebbia al sole; la nicchia dell’ebreo accasato ovunque, doesn’t matter, veniva picconata dalla macchina dell’antisemitismo di Stato, che non faceva nessuna distinzione tra l’ebreo rivoluzionario e l’ebreo conservatore, tra quello proletario e quello capitalista, tra l’assimiliato e il sionista, tra l’immigrato e il nativo, tra il laico e il religioso.
Così Zweig non ebbe la consolazione di pensarsi in esilio, perché non credeva neppure che esistesse un esilio. In cosa consisteva allora il suo essere ebreo? Ecco la domanda che martella la mente di chi, in queste “lettere sull’ebraismo”, cerca appunto l’ebraismo, quello della fede religiosa (qui inesistente) o quello del rinascimento nazionale (qui rifiutato, anzi bollato come ennesimo nazionalismo) o quello della rinascita dell’idioma che per secoli ha permesso agli ebrei di dirsi tali (Zweig non studiò mai la lingua ebraica).
La zattera di Stefan Zweig si mise da sola in mare aperto, e sebbene guidata da uno scrittore prolifico e di successo, integrato e assimilato nel cuore della cultura alta del vecchio continente, era destinata al naufragio. Le lettere zweighiane sono l’ennesima testimonianza di un mondo che stava per essere sommerso, senza che il loro autore avesse vera contezza di dove stava andando la Storia, non tanto quella dell’Europa (ché quella la vedeva e viveva sulla propria pelle) quanto quella del popolo ebraico, tesa a salvarsi non piangendo sull’odio delle nazioni ma rimboccandosi le maniche per costruire un nuovo paese, una nuova letteratura, una nuova economia.
La guerra oggi in corso non faccia velo alla storia vera di questa salvazione attraverso non il piagnisteo ma la volontà di autodeterminarsi con il proprio lavoro. Nel bene e nel male quello di Zweig fu e rimase sempre un mondo di carta, un universo tappezzato di libri in tedesco con, qua e là, qualche traduzione in francese, in inglese e in italiano (Zweig amava la nostra cultura). Hannah Arendt gli rimproverò di essere stato essenzialmente un impolitico. Invero fu soltanto un inattuale, che concepì l’ebraismo come un bel soggetto letterario e quando la Storia lo travolse, come ebreo, la letteratura non lo salvò. Ecco perché, al di là della curiosità di vedere Zweig in dialogo con i grandi ebrei del suo tempo, in quest’epistolario si respira tristezza e rassegnazione, che non sono virtù ebraiche. Non sono virtù e basta.
Nondimeno, a volte, anche gli inattuali costringono a pensare, a riflettere sul coraggio di chi non fece le loro scelte, sull’audacia di chi ruppe la simbiosi ebraico-tedesca ormai divenuta una trappola, e anche sulla forza della disperazione, che ti fa aprire porte che altrimenti non ti sogneresti di aprire (stando magari ad aspettare una vita dinanzi a un portone chiuso, come nel famoso racconto di un altro immenso scrittore ebreo viennese). Gran lavoro in questo libro, per scovare negli archivi e tradurre tale documentazione epistolare, monumento alle opzioni sbagliate e monito al prezzo che sempre paga l’ebreo quando cede alle sirene dell’assimilazione. Che sia egizia o ellenistica o araba o tedesca poco importa, sirene sempre sono.