Agorà

RIVELAZIONI. Morte del Duce, luci sul giallo

Paolo Simoncelli giovedì 8 settembre 2011
Ripartiamo da De Felice; addirittura fin dal Mussolini il rivoluzionario (1966), nella cui prefazione Cantimori in merito alla morte di Mussolini poteva già rinviare all’«ultimo volume» dell’intera opera di De Felice in cui sarebbero stati forniti «documenti e particolari tali» da modificare la versione tradizionale dei fatti: cioè della fucilazione di Mussolini e della Petacci a Giulino di Mezzegra il 28 aprile ’45 alle 16.10. Trent’anni dopo De Felice, alla vigilia della morte, affidava al Rosso e nero (1995) la sintetica anticipazione di quanto non riuscì a completare: «Nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontare che cosa è veramente successo fra il 27 e il 28 aprile a Salò e a Giulino di Mezzegra. Tutto è rimasto oscuro, alla mercé delle più terribili dietrologie». Nel frattempo si sono avute diciassette diverse versioni di quell’esecuzione e sono progressivamente apparsi al proscenio una decina di esecutori. Oggi aiuta a far luce un importante Dvd curato da Fabio Andriola e Alessandra Gigante, Mussolini. Una morte da riscrivere (Storia in rete, euro 14,90). Nessun sensazionalismo; una ricostruzione asciutta, seria, fatta incrociando dati storici e novità scientifiche nel campo medico-legale. Ad operare queste nuove analisi è Giovanni Pierucci del policlinico San Matteo di Pavia con i suoi collaboratori (Gianluca Bello, Gabriella Carlesi e Francesco Gavazzeni). Pierucci era già stato chiamato a pronunciarsi sulla morte di Mussolini da Giorgio Pisanò che in appendice al volume su Gli ultimi cinque secondi di Mussolini (1996; tra i maggiori contributi alla ripresa delle discussioni) ne pubblicò la Consulenza medico-legale sul famoso referto autoptico del corpo del Duce operato la mattina del 30 aprile 1945 all’obitorio comunale di Milano dal professor Cattabeni. Nel frattempo, un altro medico settore, Aldo Alessiani, nel 1989 aveva sottoposto ad una serrata critica le conclusioni autoptiche del Cattabeni rilevandone nel referto clamorose reticenze: Cattabeni non avrebbe indicato l’ora della morte di Mussolini; addirittura non avrebbe contato bene neanche i colpi sul corpo. Per Alessiani analisi balistiche ricavabili dalle diverse fotografie del corpo del Duce e dalle dolose lacune nel referto di Cattabeni portavano a individuare una doppia serie di colpi maggiori e una “polispazialità” di traiettorie che facevano credere che Mussolini fosse morto durante una colluttazione ben prima delle 16.10, dunque non fucilato davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Seppure sulla base di una serie ridotta di analisi fotografiche, il professor Baima Bollone nel 2005 era però rimasto convinto della tesi tradizionale. Utilizzando nuove, straordinarie tecniche sviluppatesi in questi ultimi anni (quasi alla Csi, Cold Case ecc.) Pierucci e la sua squadra, intervistati da Andriola, tornano oggi in argomento e offrono nuove risultanze. Intanto, con maggior garbo rispetto alle critiche di Alessiani, intervengono sul testo del referto di Cattabeni: formalmente non un’“autopsia giudiziaria” che risponde a diversi quesiti posti dalla magistratura, ma un semplice “riscontro diagnostico” diretto ad indicare solo la causa del decesso; senza contare le circostanze eccezionali in cui Cattabeni operò: tra partigiani e giornalisti che entravano e uscivano dalla sala, affollando il tavolo anatomico ecc. Tuttavia anche Pierucci rileva diverse anomalie nell’analisi di Cattabeni: intanto vennero del tutto trascurati gli indumenti indossati da Mussolini al momento della morte; il corpo del Duce venne presentato al tavolo anatomico già lavato (impedendo quindi altre analisi essenziali per una corretta autopsia); non furono individuati tutti i colpi, e neanche la corrispondenza tra fori d’entrata e fori d’uscita dei proiettili dal corpo. Sappiamo così ora che ben undici furono i colpi che attinsero Mussolini in vita, anziché gli otto indicati da Cattabeni; di questi undici, tre sono raggruppati nell’emitorace destro ed esplosi con un’angolazione di 35°-40°, quattro nell’emitorace sinistro ed esplosi in perpendicolare; un colpo all’anca, due nella zona addominale e uno all’avambraccio destro. I colpi risultano esplosi da una distanza variabile tra i venti e i quaranta centimetri. Questa circostanza esclude una fucilazione rituale (in genere a qualche metro di distanza dal bersaglio); indica piuttosto un’esecuzione spiccia, come desumibile anche dal colpo sull’avambraccio destro, piegato a circa 90° a protezione del volto: gesto istintivo tipico di chi si trova a subire un improvviso atto offensivo. Non solo: gli indumenti di Mussolini, riscontrabili già nelle terribili foto e filmati di piazzale Loreto, non riportano alcun foro d’entrata di proiettili. Evidentemente è stato colpito prima di essere rivestito; le analisi della cosiddetta “scala dei grigi”, atta a individuare macchie di sangue e aloni incombusti di polvere, dimostrano che Mussolini, al momento della morte, aveva indosso solo una maglietta. Andriola e Gigante, con l’ausilio di altra documentazione storica confortano l’ormai facile critica della “vulgata”: mentre a Dongo tutta la popolazione venne invitata ad assistere alla fucilazione dei gerarchi sulla spalletta del lungolago, a Giulino di Mezzegra la via XXIV Maggio, dove s’affaccia il cancello di Villa Belmonte, venne chiusa dai partigiani in entrambi i sensi di marcia per nascondere ad eventuali passanti occasionali la fucilazione di Mussolini e della Petacci. Ancora: Claretta non era stata condannata a morte da nessun organo del Cln, nemmeno dal famigerato Comitato insurrezionale (composto da Longo, Pertini, Valiani e Sereni). Eppure il “colonnello Valerio” nel tragico appello fatto nel pomeriggio a Dongo dei gerarchi prigionieri e relativa sentenza, dice: «Claretta Petacci, a morte!»; così come: «Mussolini, a morte!», e uno per uno tutti gli altri. Ma la Petacci non era in quell’elenco. Il “colonnello Valerio” a Dongo nel pomeriggio sapeva quindi che lei e Mussolini erano già morti. A che ora dunque erano stati ammazzati? Le precedenti risultanze del referto di Cattabeni, le critiche di Alessiani e il primo intervento di Pierucci avevano concordemente indicato l’assenza di tracce di cibo nello stomaco di Mussolini; Lia De Maria, padrona della casa dove Mussolini e la Petacci avevano trascorso le poche ore della notte del 27 e la mattina del 28 aprile, disse di aver dato da mangiare a Mussolini a mezzogiorno. Questa testimonianza sarebbe stata incompatibile con le risultanze autoptiche precedenti: Mussolini era stato ucciso prima di mangiare. Ora invece Pierucci non ritiene incompatibile l’ora ufficiale della morte, le 16.10, con il pranzo delle 12.00. Possiamo però aggiungere elementi ulteriori a proposito dell’ora della morte: il “rilasciamento” del corpo che interviene dopo la rigidità cadaverica si manifesterebbe circa quarantott’ore dopo la morte. I l referto autoptico di Cattabeni, che iniziò a operare alle 7.30 del 30, aprile indica una «rigidità cadaverica risolta alla mandibola. Persistente agli arti». Ma un testimone d’eccezione presente quel giorno all’obitorio, il giornalista Bruno Romani, scrisse su “Risorgimento liberale” del 5 maggio seguente che «ad ogni movimento la sua testa (di Mussolini) dondolava pesante come quella di una bambola di segatura». A prender per buona questa testimonianza, la morte di Mussolini sarebbe dunque occorsa nella mattina del 28 aprile, non alle 16.10. E cambia naturalmente lo scenario: non più il cancello di Villa Belmonte, dove sarebbe stata solo inscenata una finta fucilazione, ma casa De Maria a Bonzanigo (poco a nord di Giulino di Mezzegra). Pisanò raccolse la testimonianza straordinaria di una vicina di casa dei De Maria, Dorina Mazzola, che sentì prima un grande trambusto e, nascosta, vide poi buona parte delle drammatiche scene occorse intorno alle 10.00 con l’uccisione di Mussolini e, alle 12.00, con quelle della Petacci. Questa testimonianza e le nuove risultanze medico-legali non sono affatto in contraddizione. Andriola e Gigante chiudono in modo apprezzabilmente cauto l’inchiesta: sappiamo oggi cosa non è accaduto; non ancora ciò che realmente è occorso. Ne approfittiamo per qualche rilievo conclusivo che apre a nuove ricerche: intanto perché questa omertà pertinace nel nascondere le vere circostanze della morte di Mussolini? Un’assurdità che di fronte già alle varie e contraddittorie versioni sull’esecuzione di Mussolini fornite da Walter Audisio, ha legittimato ipotesi alternative d’ogni genere, alimentato fertili fantasie, moltiplicato i giustizieri. Dunque quella versione ufficiale nascondeva qualcosa di grosso, doveva celare qualche segreto importante; da cui i morti ammazzati sopraggiunti immediatamente tra i testimoni e i protagonisti dell’evento che avevano manifestato qualche segno di cedimento dinanzi alla consegna del silenzio. Non a caso ad essere ucciso subito fu “Lino”, uno dei due partigiani che avevano custodito Mussolini e la Petacci dal loro arrivo a casa De Maria alla loro morte. “Lino” venne ammazzato appena una settimana dopo Mussolini; pochi giorni dopo fu la volta del “capitano Neri”, il mese dopo della sua compagna, “Gianna”, che ne cercava notizie. Le risultanze dell’inchiesta (come già la ricostruzione di Pisanò), affievoliscono di molto la “pista inglese”, sostenuta plausibilmente fino ad oggi dalle testimonianze di uno dei molti possibili esecutori del Duce, Bruno Lonati, assieme al capitano inglese John Maccarone (testimonianze ritrasmesse nel luglio 2010 da Rai3). Secondo questa ipotesi, la “prima” vera morte di Mussolini sarebbe stata dovuta alla necessità di sottrargli la documentazione scottante che aveva con sé, in particolare il carteggio segreto con Churchill occorso poco prima e soprattutto dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Le due circostanze possono coesistere senza essere necessariamente correlate: la documentazione segreta di Mussolini era già stata sequestrata dai partigiani; a volerlo morto erano sì gli inglesi, non meno dei comunisti, anzi del già visto Comitato insurrezionale del Cln timoroso che, come ne disse lo stesso Longo, se Mussolini fosse stato consegnato agli Alleati e processato dai loro tribunali, forse non sarebbe stato condannato a morte. All’esistenza di quel carteggio continuò a credere De Felice; riteneva che quelle lettere di Churchill avrebbero potuto riservare «qualche sorpresa»; probabilmente relativa alle vere cause dell’intervento in guerra dell’Italia.