Musical. La sfida di Giò Di Tonno: "Ora da Capitan Uncino inseguo Peter Pan"
Giò di Tonno nei panni di Capitan Uncino
È il “numero uno” del musical all’italiana, Giò Di Tonno. Diventato celebre nel ruolo di Quasimodo, l’eroe romantico di Notre-Dame de Paris, capolavoro di Riccardo Cocciante, l’attore pescarese ha poi vestito i panni di don Rodrigo, il malvagio dei Promossi sposi nell’opera moderna scritta da Michele Guardì. Adesso invece si è trasformato in Capitan Uncino, il comandante della ciurma che perseguita Peter Pan, nell’omonimo spettacolo firmato da Maurizio Colombi con le canzoni di Edoardo Bennato, in cartellone al Teatro degli Arcimboldi di Milano fino al 14 gennaio.
Un’alternanza di personaggi buoni e cattivi nella sua carriera di protagonista di musical...
Ha dimenticato Jekyll e Hyde, ruoli che ho interpretato nello spettacolo allestito nel 2007: una via di mezzo, il buono e il cattivo in un solo spettacolo....
Com’è per lei questa prima esperienza nella parte del pirata simpatico e mascalzone della favola rock tornata nei teatri italiani dopo mille repliche e 18 anni di successi?
Mi diverte essere al servizio di personaggi che fanno parte dell’immaginario collettivo, quelli che i bambini amano. Il Peter Pan in scena all’Arcimboldi è come quello del film, del cartoon, un’opera moderna piena di ironia. Si tratta di un genere leggero, brillante. Per me è la prima volta in un “family” e mi ci trovo benissimo.
Quando si è accorto di avere un talento per la musica e le arti dello spettacolo?
Ero bambino. Avevo 8 anni e, tra una partita di pallone e l’altra, suonavo il pianoforte, non perché mi piacesse particolarmente all’inizio, ma perché vivevamo in un quartiere difficile di Pescara e mio padre voleva che mi allontanassi dai pericoli della strada, quindi mi iscrisse a una scuola di musica. Imparai le note del pentagramma e non mi staccai più da quello strumento: arrivavo a casa da scuola e non vedevo l’ora di suonare. Sono le passioni che scelgono noi e non viceversa: ti si attaccano addosso e non ne puoi più fare a meno.
Ma quando scoccò la scintilla? C’è stato un momento preciso in cui ha pensato: ecco, la musica è il mio mestiere, la mia vita?
A 11-12 anni, ero a un pranzo di matrimonio con la mia famiglia. Gli sposi sapevano che io suonavo il piano e mi dissero: “Facci sentite qualcosa”. Ero timido e mi avvicinai incerto all’orchestrina, suonai alla tastiera e cantai una canzone, e alla fine scoppiarono gli applausi: ebbi un’emozione fortissima. Ecco, quel momento, il breve tragitto tra la pedana e il mio tavolo, lo ricordo ancora. Si può dire che da allora inseguo quella magia.
Ma prima di arrivare al successo Giovanni Di Tonno di gavetta ne ha fatta tanta...
Sì, è vero, ho studiato molto. Perché il talento da solo non basta. Ho lavorato su me stesso, tecnicamente ed emotivamente. Per fare i musical poi devi sapere mille cose, usare più la testa che il cuore. Nel 1990, quando avevo 18 anni, il grande attore abruzzese Bruno Boschi mi propose di registrare alcuni brani che avevo composto da cantautore. “Tu sei un introverso” mi disse. E decisi di andare a lezione di improvvisazione teatrale, così unì le due discipline. Il musical è diventato la mia specialità, opere popolari moderne, soprattutto, perché non amo pazzamente gli spettacoli di impostazione anglosassone.
Però ha partecipato anche al Festival di Sanremo. La prima volta nel 1994 nella sezione Nuove proposte, poi tra i big nel 1995 ma non si qualificò per la finale. E tredici anni dopo ha vinto, in coppia con Lola Ponce, con Colpo di fulmine, una struggente canzone scritta da Gianna Nannini. Ma oggi i tempi sono cambiati…
Per la mia generazione Sanremo era l’unico palco importante. Adesso invece ci sono anche i talent show. Io e Lola eravamo gli outsider, avevamo avuto successo con Notre-Dame ma il grande pubblico televisivo non ci conosceva e ci ha scoperti sul palco dell’Ariston. C’è stata subito una notevole empatia con lei ed è stata la formula vincente.
Ricorda le emozioni che provò per quella vittoria?
Me la sono goduta davvero. Dopo la serata tornai in albergo e dalla terrazza guardai il mare da lontano pensando alla mia Pescara. E poi rimiravo il premio che avevo appoggiato sul tavolo e pensavo ai tanti sacrifici che avevo fatto sin da ragazzino, era il 2008. Devo dire però che il festival non mi manca proprio: sono felice di quello che faccio. Nei teatri non c’è niente di artefatto.
Venti anni fa Riccardo Cocciante la scelse per fare il gobbo Quasimodo. Da qual giorno lei ha partecipato a circa 1.100 repliche dello spettacolo. È un personaggio che le entrato nella pelle….
Cocciante, con il quale poi siamo diventati amici, mi scelse dopo un anno di provini, una selezione condotta dal responsabile del casting tra decine di candidati. Fu una scrematura continua, fino a all’ultima sessione, all’Ambra Jovinelli di Roma, con lui presente. Camminavo da gobbo e cantai piegato, cosa difficilissima. Lui mi sorrise e mi disse che aveva provato una grande emozione ad ascoltarmi. Poi mi domandò, sorridendo: “Ma sai cantare anche eretto?”. E mi scelse. È stata la più bella esperienza della mia vita. E dura ancora oggi. Fra un paio d’anni dovremmo tornare con un’altra tournée in Italia.
Ormai Notre Dame de Paris non è più solo un evento artistico, ma un vero e proprio fatto sociale. Oltre mille repliche con un pubblico affezionato.
Già, uno spettacolo quasi sempre sold-out. Ci sono spettatori che l’hanno visto anche 50 volte. E padri che hanno portato in teatro i figli e li hanno fatti innamorare della storia, che è la stessa del romanzo di Victor Hugo, con dei valori da trasmettere.
Giò Di Tonno, oltre ad essere un grande talento, è una persona sensibile anche verso chi ha bisogno, attento alle iniziative di solidarietà e beneficenza...
La mia famiglia mi ha educato ai grandi valori della vita, al rispetto degli altri. È un’eredità che ho ricevuto dai miei genitori: sono stato abituato ad apprezzare tutto quello che si ha, a vivere il bello. E ciò mi ha salvato. Sono un testimonial dell’Ail, (Associazione Italiana contro le leucemie, linfomi e mieloma, ndr) e ho giocato nella nazionale cantanti che promuove iniziative di solidarietà.
Che valore ha la fede nella sua vita personale e d’artista?
Cerco di vivere in una profonda spiritualità le cose che faccio. Da cristiano, anche se non praticante. E mi faccio tante domande. Anche per questo cerco di occuparmi del prossimo. Penso che noi attori e cantanti siamo uno strumento per comunicare qualcosa di più grande attraverso i nostri doni, la faccia, la voce…. C’è qualcosa di sacro nel nostro lavoro. Un Mistero, qualcosa di più grande di noi. E anche per questo siamo dei privilegiati. So che alcuni si sono salvati grazie a Notre Dame: la forza della poesia.
E cos’è la famiglia per lei?
Sono felicemente sposato da 25 anni con una donna meravigliosa e ho due figli. Lei mi ha sempre sostenuto, abbiamo saputo trovare i giusti equilibri nel nostro rapporto. Da parte mia ho sempre cercato di non lasciarmi sopraffare dal lavoro e di essere presente: quando posso sto a casa. Non ho voluto fare l’errore di non vedere i figli crescere e di immolarmi per la causa artistica: li ho messi al mondo e li devo proteggere.
Il legame con la sua terra d’Abruzzo? Dopo 15 anni in cui ho abitato a Roma ho deciso di tornare a Pescara, mi mancava il mare. Anche i bambini sono felici di questa scelta. Le radici per me sono importanti e poi in una città di provincia si vive meglio.