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La mostra a Parma. Goya e Grosz: quando la ragione dorme gli artisti vegliano

Alessandro Beltrami venerdì 14 ottobre 2022

George Grosz, “A Piece of My World II The Last Battalion”, 1938

Francisco Goya e George Grosz. Sembra l’uovo di Colombo, eppure nessuna mostra aveva affiancato il pittore spagnolo dell’illuminismo e l’espressionista tedesco. Accade per la prima volta a Parma dove si intrecciano – nei fatti una doppia personale in contrappunto – i Capricci e i Disastri della guerra di Goya e una dozzina di tele (di cui una inedita) e un cospicuo gruppo di opere grafiche di Grosz, tutte successive alla stagione Dada. A dare senso al progetto "Goya - Grosz. Il sonno della ragione" (fino al 28 gennaio) sono «la satira sociale dirompente, l’impegno politico, il rilievo morale e l’estrema innovazione formale che accomunano le opere dei due grandi pittori», spiegano in catalogo i curatori della mostra a Palazzo Pigorini (tra l’altro a ingresso gratuito) Ralph Jentsch e Didi Bozzini. Ma passando per le sale è chiara la fratellanza tra i due artisti che ambiscono con il loro lavoro a incidere sulla società e sul loro tempo ma che soprattutto avvertono e restituiscono contraddizioni e tragedie che appartengono come una costante all’uomo. Come chi si affida a ciarlatani invece che a scienziati e mistificatori invece che a politici. E la follia della guerra, dove l’uomo mostra il suo volto di lupo. Eppure non è un progetto nato sull’onda dell’attualità, bensì prima della pandemia. La cronaca l’ha raggiunto. Il percorso propone la sequenza integrale dei Caprichos, proveniente da Parigi, in una prova freschissima, tra le prime uscite dal torchio e con un prestigioso pedigree: venne infatti acquistata da Delacroix dietro consiglio di Baudelaire, al quale si deve per altro la riscoperta di Goya e la sua proiezione come elemento seminale della modernità. Seguendo Victor Stoichita, Bozzini riconosce nei Capricci, pubblicati il 6 febbraio 1799, l’ultimo Mercoledì delle ceneri del secolo, un grande carnevale. Questa mascherata, come in un comic novel ante litteram, mette in scena un mondo alla rovescia: ma solo in apparenza perché offre invece il ritratto di un’aristocrazia ignorante e inetta, un clero reazionario, un popolo superstizioso.

Si capisce bene allora la maschera sdegnosa dell’autoritratto (in vesti giacobine: in costume, sostanzialmente) che apre la serie e che nel bozzetto riporta questa didascalia: “Il mio vero ritratto, di umore nero e in atteggiamento satirico”. Goya nei Capricci ha una vis comica, per quanto acre, assente in Grosz. Goya interpreta l’adagio di chi castigat ridendo mores – un’espressione d’altronde non così antica a quei tempi: venne infatti composta da Jean de Santeuil nella seconda metà del Seicento per il busto di Arlecchino sul proscenio della Comédie Italienne a Parigi. Sempre nel carnevale, dunque, siamo. Il Goya pittore di corte interpreta anche il joker che si permette di sottolineare vizi e peccati. Sa di poter contare sulla protezione dell’aristocrazia progressista e più sopra ancora del re, alla quale infatti ricorre quando l’Inquisizione si mette alle sue calcagna. Ma Goya è fiducioso in un progresso. La sua satira asseconda – con un talento shakespeariano per il fantastico unito all’ironia dello scettico – una lettura senza sfumature dell’uomo: la luce dell’elemento razionale contro il buio dell’irrazionale che lo ricaccia nella sfera della bestialità. La storia gli farà cambiare idea. Lo rendono evidente i Disastri della guerra, dove l’elemento morale resta fortissimo ma ha perso ogni manicheismo: tutto accade alla luce del sole perché è buio anche il pieno giorno. E il fantastico ha ceduto il passo a un realismo che supera in fantasia ogni incubo. Da qui parte Grosz, che del Novecento assorbe e anticipa disillusione e disincanto. Il suo attacco alla società è frontale, senza vie di uscita. Prima è la Germania di Weimar. Quindi quella hitleriana, che Grosz seguirà a New York, dove è accolto a braccia aperte (ma non esiterà a metterne alla berlina le contraddizioni), dopo la fuga da Berlino nel gennaio 1933, appena prima che il Führer avvii la macchina totalitaria. Grosz appare sempre in anticipo, capta il disastro incipiente quando nessuno ancora lo vede. La sua satira è cupamente acida, anche a fronte di una tavolozza non di rado di consistente splendore cromatico e vibrata sulla tela con pennellate dense (fondamentale ad esempio per la pittura di Baselitz, e non solo la prima). Ma mentre avanza la storia Grosz è proiettato nel post-apocalisse. La terra è l’inferno, l’uomo è ridotto ai bisogni primari. «Senza dubbio – scrive in una lettera dagli Stati Uniti nell’agosto 1933 – i miei fogli sono tra le cose più forti che siano state dette contro questa particolare brutalità tedesca. Oggi sono più veri che mai e in futuro – in tempi, perdona la parola, più 'umani' – verranno mostrati proprio come oggi si mostrano le opere di Goya…».