Agorà

Storia. Alla ricerca di Dio nella Oslo occupata

Alessandro Zaccuri mercoledì 24 aprile 2019

Le truppe di occupazione tedesche sfilano per le vie di Oslo nella primavera del 1940 Petter Moen

Nel 1941, nella testamentaria Novella degli scacchi, Stefan Zweig era stato meno prosaico, ma non meno realista. Prigioniero della Gestapo, il protagonista del racconto sfida sé stesso muovendo minuscoli frammenti di carta su una scacchiera intravista fra le pieghe della coperta ai piedi del letto. Tre anni più tardi nel carcere nazista allestito a Oslo, al numero di 19 di Møllergata, i detenuti giocavano di nascosto con le carte ricavate dai fogli distribuiti per la latrina. In assenza di inchiostro, i segni erano tracciati con il creosoto, un derivato del catrame che all’epoca veniva impiegato come disinfettante. Su quegli stessi fogli, larghi e spessi, uno dei reclusi redigeva pazientemente il suo diario. Niente penna, anche in questo caso. Lo strumento utilizzato era un ferretto sottratto alle tende d’oscuramento, molto efficace nell’incidere le parole sulla superficie scura della carta igienica. Quell’uomo si chiamava Petter Moen, era stato arrestato insieme con la moglie Bergliot il 3 febbraio 1944, poco giorni prima di compiere 43 anni. Matematico di formazione, lavorava come attuario ed era stato incriminato per la posizione che rivestiva nella stampa clandestina norvegese. Il metodo escogitato per eseguire e conservare i propri scritti rivela una mentalità molto pratica, molto razionale. Moen raggruppava cinque foglietti, li avvolgeva in un sesto, dopo di che faceva cadere quella specie di sigaretta nel condotto di aerazione della cella. In questo modo, non solo il diario, ma anche appunti, calcoli e preghiere finirono nel nascondiglio, dove vennero ritrovati a guerra finita su indicazione di un compagno a conoscenza del segreto. Moen era morto l’8 settembre 1944, nell’affondamento della nave che lo stava deportando in Germania. Bergliot – che nel diario viene sempre chiamata con l’affettuoso soprannome di Bella – sopravvisse invece al campo di concentramento di Grini, nella quale era stata internata subito dopo l’arresto.

Pubblicato in Norvegia già nel 1949, il Dagbok di Moen è da tempo considerato uno dei documenti più importanti nella testimonianza della persecuzione. Nel suo Trattato del ribelle Ernst Jünger si spinge a indicare nell’autore «il discendente spirituale di Kierkegaard», rappresentante di una letteratura che si dimostra tanto più potente quanto meno è mossa da intenti esclusivamente letterari. Un’affermazione alla quale finora il lettore italiano di Jünger era costretto a prestare fede senza poter effettuare una verifica diretta. Adesso finalmente il «diario dal carcere» di Moen viene proposto nel nostro Paese da Quodlibet con il titolo Møllergata 19 (traduzione di Bruno Berni, pagine 208, euro 18,00) e quel giudizio non può che essere confermato. Anzi, la costellazione nella quale la confessione di Moen si inserisce è ancora più vasta e complessa, come giustamente fa notare il curatore del volume, Maurizio Guerri, nell’importante saggio che accompagna la versione italiana del diario. Il periodo di detenzione di Moen coincide, tra l’altro, con quello che Dietrich Bonhoeffer trascorre nel carcere di Tegel e non mancano i punti di contatto tra la dolorosa riflessione del norvegese e gli scritti poi confluiti in Resistenza e resa. In entrambi i casi, il prigioniero vive la propria condizione nei termini di una prova spirituale, evitando però di confondere l’esperienza religiosa con un conforto a buon mercato. Moen, in particolare, è molto severo nel respingere la tentazione di un abbandono meramente emotivo. Non dispone della profondità teologica di Bonhoeffer, ma è una persona di buone letture, capace di citare a memoria dalle opere di Goethe e di Shakespeare. Amleto, nella fattispecie, è il personaggio nel quale maggiormente si riconosce, non fosse altro per la dimensione metafiscia che il dubbio assume nella sua vicenda.

Quella di Moen è una drammatica storia europea ed è, nello stesso tempo, una storia emblematica della Norvegia al tempo della resistenza. Nonostante il colpo di Stato messo a segno nell’aprile del 1940 dal governo fantoccio di Vidkun Quisling, l’occupazione nazista del Paese fu duramente contrastata dall’opinione pubblica e dallo stesso re Haakon VII, il cui monogramma divenne presto uno dei simboli di un’insurrezione che, come ricorda Guerri, si mosse lungo due direttrici. All’azione militare dei partigiani si affiancarono infatti le iniziative della società civile, con modalità ed esiti anche clamorosi: gli insegnanti norvegesi, per esempio, si rifiutarono di applicare i programmi filonazisti promossi dall’esecutivo di Quisling, che da ultimo fu costretto a riconoscere una sostanziale libertà di coscienza. Fondamentale, in questo contesto, il ruolo svolto dai numerosi giornali clandestini, molti dei quali attingevano il materiale dalle trasmissioni della Bbc, altrimenti captate in Norvegia solo da pochi ascoltatori. Al momento dell’arresto Moen era tra i responsabili di una delle testate più diffuse, London-Nytt, che esplicitamente si richiamava al bollettino di “Radio Londra”. Nelle pagine del diario, questo incarico è fonte di continui ripensamenti e rimorsi. Moen è convinto di aver preteso troppo dalle proprie forze, mettendosi così in una situazione dannosa per gli altri oltre che per lui stesso. Il primo dei suoi appunti, datato 10 febbraio 1944, sembra non lasciare scampo: «Mi hanno fatto due interrogatori. Mi hanno frustato. Ho tradito Vic. Sono debole. Merito disprezzo. Ho una terribile paura del dolore. Ma non ho paura di morire».

Come nella Novella di Zweig, i pezzi sono già disposti sulla scacchiera. Pur desiderando che il diario giunga un giorno a essere divulgato, Moen non dissimula la debolezza e lo smarrimento («Non sono coraggioso. Non sono un eroe. Non posso farci niente»), ma d’altro canto è meticoloso nel descrivere le tappe della sua contraddittoria esplorazione interiore. «Ci vorrebbe un prodigio psicologico per portarmi a ciò che desidero – alla salute e all’armonia dell’anima e del corpo. Spero in un aiuto di Dio. È la mia ultima possibilità di “salvezza” in ogni senso», scrive in data 2 marzo. Qualche mese più tardi, il 27 luglio, il dissidio tra l’«Io bisognoso » e l’«Io intellettuale» pare essersi risolto a favore di quest’ultimo, attraverso un estremo tentativo di «razionalizzazione» che però non arriva liquidare definitivamente il «logoro problema» dell’esistenza e della natura di Dio. In precedenza, Moen è perfino arrivato a registrare in forma poetica una visione della «testa di Cristo» riflessa «sulla parete della cella»: «La via della salvezza mostrami clemente / dal peccato, dalla morte e dall’ansietà!». La speranza che il «salto mortale » si trasformi in «salto vitale» non viene mai cancellata del tutto, neppure quando Moen deve vedersela con la meschinità dei carcerieri e degli stessi compagni di prigionia, tra i quali spicca la figura quasi animalesca di un marinaio ubriacone e sensuale. Ma ancora pochi giorni prima del fatale trasferimento, si domanda: «Non voglio vivere? Ah! Ah! Dio! Certo – io voglio vivere! Che il sole spenda di nuovo su una strada dove posso camminare a braccetto con il mio amore... Abbasso gli occhi di fronte al mio destino. Nascondo di nuovo il mio vero volto – parlo di nuovo con lingua falsa – vivo e voglio vivere».