Teatro. A Genova torna a volare il primo "Gabbiano" di Cechov
Tommaso Ragno ed Elisabetta Pozzi ne "Il Gabbiano" di Cechov
Ha ragione Marco Sciaccaluga quando ci racconta che se dovesse scegliere la top ten dei capolavori fondamentali del teatro di tutti i tempi, almeno tre sarebbero di Anton Cechov: Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi e Il Gabbiano. Quest’ultimo in particolare «perché ha segnato la svolta epocale fra il teatro dell’Ottocento e quello del Novecento. Cechov scommette che il quotidiano contenga, più dell’eroico, il senso del vivere» aggiunge il regista, consulente artistico dello Stabile genovese, che ha appena debuttato al Teatro della Corte con la nuova produzione del Gabbiano, in scena sino al 28 febbraio. Uno sguardo, quello del drammatur- go russo, ricco di pietà per i suoi personaggi in crisi, dibattuti tra sogni e speranze eternamente disilluse, vite solo in apparenza senza senso, che raccontano meglio di qualunque epopea la fine di un mondo, quella Russia zarista di lì a poco travolta dalla rivoluzione sovietica. Un teatro non subito compreso: Il gabbiano, scritto nell’autunno del 1895 dal 35enne Cechov, al suo primo debutto a San Pietroburgo nel 1896 fu un disastro tale da fargli pensare di lasciare la drammaturgia. Ci pensarono un paio d’anni dopo il regista Stanislavskij e il drammaturgo Nemirovic Dancenko a rimettere mano all’opera e a portarla al successo imperituro nell’innovativo Teatro d’Arte di Mosca da loro fondato. In Italia si ricorda una magistrale regia (registrata anche dalla Rai nel 1969) di Orazio Costa con Gabriele Lavia, Ilaria Occhini, Giancarlo Sbragia, Anna Proclemer e Gianrico Tedeschi. E proprio alle radici originarie dell’opera è voluto andare Marco Sciaccaloga, rappresentando per la prima volta in Italia la versione del 1895, come fecero vent’anni fa in Francia André Marcovicz e Francoise Morvan. Grazie alla traduzione di Danilo Macrì, che ha tenuto conto di tutte le varianti che nella classica stesura russa erano finite in coda come postille ( Il gabbiano, Collana del Teatro Stabile di Genova, euro 12.00). Si tratta della copia ancora non passata dalle forbici del censore, cui doveva essere sottoposta prima di essere portata in scena. Vennero sforbiciati alcuni riferimenti alla presenza di ladri e mendicanti, “inopportuna” per l’immagine della Russia dello zar, mente verranno sfumate le battute in cui Kostantin Gavrilovic, il giovane, appassionato e complessato figlio della star del teatro Irina Nikolaevna Arkadina (una magistrale Elisabetta Pozzi), e la madre discutono del menage della donna con il malsopportato scrittore Trigorin. La versione recuperata da Sciaccaluga dona ancora più modernità, se possibile, al dramma familiare. Un rapporto viscerale fatto di incomprensioni (materne) e gelosie (filiali) che anticipano di decenni i terribili confronti padre-figli di Tennessee Williams o Elia Kazan (l’irrequieto Kostantin, qui ben interpretato da Francesco Sferrazza Papa, sarebbe calzato a pennello a James Dean) e che sono figlie apertamente dichiarate dell’Amletodi Shakespeare. Nella soffocante immobilità fisica e morale di una tenuta di campagna in riva a un lago, nascono e muoiono i sogni dei tanti personaggi, quelli che non hanno mai vissuto, come il vecchio zio Petr e la depressa Mascia, innamorata di Konstantin, e quelli che bruciano le loro ali nel tentativo di spiccare il volo, come il poetico Kostantin in cerca di un suo ruolo nel mondo e l’amata Nina (è lei il gabbiano) che perderà la purezza e la rotta nell’ansia di diventare un’attrice «famosa», abbagliata e poi abbandonata dal debole Trigorin ( Tommaso Ragno), scrittore senza talento. Ma è proprio la capacità di creare, la sua necessità, sofferta, spesso incompresa la vera protagonista. Il conflitto fra il rabbioso giovane poeta Konstantin e il bolso scrittore di maniera Trigorin, rappresenta l’arrivo di una nuova era rivoluzionaria. Il Novecento.