Una maschera della cultura Chokwe (Congo contenuto nella sezione “Persona. Masks of Africa” dell’Africa Museum di Bruxelles - Africa Museum di Bruxelles
L’abbiamo vista arrivare senza troppo farci caso, quando cominciammo a dire “operatore ecologico” invece di “spazzino”, “collaboratrice domestica” (o “colf”) invece di “donna di servizio” e simili. Siccome nei vecchi termini si avvertiva qualcosa di offensivo, tutti ci arrendemmo alle nuove forme, anche quelle un po’ bizzarre (come “collaboratore scolastico” al posto del classico “bidello”). La chiamavano politically correct. Quelle sostituzioni lessicali apparentemente innocue erano in realtà il preannuncio silenzioso di un movimento che stava prendendo corpo negli Usa e che negli ultimi dieci o quindici anni, dopo aver dilagato nel Paese d’origine, si è propagato rapidamente in Francia e ha toccato le amate sponde. Sto parlando della cultura woke, un intricato complesso di teorizzazioni e di pratiche elaborato dapprima dal movimento Black Live Matter, poi ripreso e sviluppato nei campus Usa, soprattutto nelle costose università dell’Ivy League. (Ne ha dato un’efficace sintesi Alfonso Lanzieri su Avvenire dell’8 marzo.) Partito dall’idea di “risvegliare” gli afroamericani ( woke vuol dire “sveglio, che tiene gli occhi aperti”) per spingerli a rivendicare i loro diritti, questo “pensiero” ha risucchiato via via un’amplissima rete di temi apparentemente slegati, in quanto incorporano elementi di discriminazione e violenza: genere, razza, colonialismo, diversi di ogni tipo, sessualità, migrazioni, minoranze, stereotipi, linguaggio, fede, educazione e cultura, arti, cinema, letteratura, aspetto fisico, alimentazione e così via. Il movimento woke ha trovato i suoi leader e i suoi testi fondamentali, soprattutto negli Usa, e ha inevitabilmente finito per investire la sfera po-litica, dove spinge perché le sue richieste si traducano in norme di legge.
Ha alla base un’elementare tesi di filosofia della storia. Muovendo dall’idea che la Storia non è che l’oppressione che da millenni maggioranze violente esercitano su minoranze indifese, la tipica maggioranza oppressiva è identificata nel maschio bianco e, per estensione, nell’Occidente colonialista, schiavista, razzista e machista. Lo schema è sintetizzato nella formula, centrale nel pensiero woke, del “privilegio bianco” (alla francese, della blanchité), inteso come peccato originale da snidare e mondare ovunque si trovi, anzitutto “lottando per essere meno bianchi” (formula del leader wokista Usa Ibram X. Kendi). Ciò dà luogo alla caccia di “puri e impuri”, nella storia e nella vita d’oggi: una volta identificati, gli “impuri” vanno segnati a dito e indotti alla vergogna (da qui la formula name and shame “fa’ i nomi e svergogna”). Penetrando nei diversi ambiti, il wokismo ha finora prodotto soprattutto cancellazioni e demolizioni, materiali e immateriali, dando forma all’atteggiamento noto come cancel culture. Negli Usa sono stati espunti dai sillabi universitari testi e autori ritenuti portatori di discriminazioni (dai classici latini e greci, fino a Shakespeare, Mark Twain e tanti altri). In più Paesi sono state abbattute statue di uomini considerati indegni, come documenta Arnaldo Testi nel suo bel libro I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti (il Mulino). La strage di monumenti si è estesa altrove: a Bristol ha colpito la statua dello schiavista settecentesco Edward Colston, negli Usa decine di effigi di Colombo, in Virginia quella del generale sudista Robert E. Lee, a New York quella di Theodor Roosevelt che, dinanzi al Museo di Storia naturale, cavalcava tronfio tra un nativo e un afroamericano appiedati... (Qualche domanda dovremmo farcela anche in Italia, dove in ogni città c’è un quartiere le cui strade ricordano vittorie-massacro nelle colonie africane, e non poche scuole elementari sono ancora intitolate alla maestra Rosa Maltoni Mussolini, il cui solo merito noto è di aver dato i natali a Benito).
Nelle sue diverse concentrazioni, il pensiero woke è penetrato anche nel mondo del simbolico, toccando ambiti del tutto inattesi. In alcune case editrici anglofone sono spuntati i sensitivity readers, cacciatori di contenuti ed espressioni offensive, senza risparmiare neanche i classici, da Agatha Christie a Roald Dahl a Joanne K. Rowling. È ormai esplosa ovunque l’enorme questione della “giustizia patrimoniale” (prendo il termine da Bénédicte Savoy nel suo A qui appartient la beauté, uscito da La Découverte), cioè delle richieste di “restituzione” di oggetti d’arte rubati, anche col rischio di svuotare i musei occidentali. Accusati (non ingiustamente) di essersi alimentati per secoli con spoliazioni, ruberie e commerci illeciti, i grandi musei sono infatti messi in discussione alla radice. Il Metropolitan di New York ha corretto l’anno scorso l’impianto di varie sale, perché (ha spiegato il direttore, l’aula striaco Max Hollein) «ciò che un tempo era motivo di fierezza, oggi è un marchio d’infamia da cancellare». La cancellazione è stata avviata in modo singolare: nella sezione dell’antichità classica, accanto a una statua arcaica come il Kouros greco (VI secolo a. C.), è stato posto il Mankaaka, idolo congolese ottocentesco, per suggerire affinità profonde. Nella mostra parigina Miroir du monde, che a fine 2022 presentò i tesori delle raccolte d’arte applicata di Dresda, c’era una sezione sulla “formazione di stereotipi” (lo schiavo nero, il prigioniero sottomesso, la schiava lasciva), in cui con cartelli accanto alle opere il museo prendeva le distanze. Ma non è facile cancellare la storia, e neanche rimetterla in ordine a forza di damnatio memoriae. La Francia cerca di togliersi d’impaccio ristrutturando lo smisurato Museo delle Colonie di Parigi Vincennes, dedicato nel 1931 alla sua missione “colonizzatrice e civilizzatrice”. Riaperto mesi fa col nome di “Museo dell’immigrazione”, espone oggetti che raccontano più i flussi migratori e i loro costi umani che il processo di colonizzazione da cui derivano. Ma riorganizzare non basta. Il grande edificio porta, incancellabili, un immenso bassorilievo all’esterno e all’interno un grande mosaico che rappresentano con incredibile candore le mille forme di sfruttamento che la Francia ha esercitato sulle risorse naturali e sugli esseri umani in mezzo mondo.
Non per caso è la Francia il paese europeo in cui cultura woke crea più preoccupazione, diffusa com’è nel mondo accademico e intellettuale. È lì che è nata la “scrittura inclusiva”, che sostituisce con un complesso sistema di interpunzione il dominante plurale maschile onnicomprensivo (per esempio, les étudiants “gli studenti [e le studentesse]”) e usa forme come professeure (con e finale femminile) e écrivaine (idem) al posto dei tradizionali (in verità grevi e ridicoli) femme professeur e femme écrivain. È lì che è nato il pronome iel, temeraria fusione di il “lui” e elle “lei”, per evitare discriminazioni verso i soggetti non binari. Le dispute italiane sulle terminazioni dei femminili di professione (“presidente” o “presidenta”? “architetto” o “architetta”?) e sulla finale in schwa per eliminare i maschili plurali onnicomprensivi rifanno a modo loro quelle esperienze. Se per queste rivendicazioni è facile prevedere breve fortuna, le cose vanno diversamente per altri temi woke. Uno dei nodi più duri è il pensiero “decoloniale”, che punta a snidare e demolire «le strutture di razza, di genere, dell’eteropatriarcato e di classe […] costitutive e connesse con il capitalismo globale e la modernità occidentale». Prendo la citazione dal voluminoso lavoro di Walter D. Mignolo e Catherine E. Walsh, Decolonialità (appena uscito da Castelvecchi, pagine 400, euro 35,00), che dà un panorama delle pesanti impronte materiali e culturali lasciate dal colonialismo sul pianeta e dei modi per cancellarle. Sebbene il volume provenga dagli Usa, è ancora la Francia il Paese in cui l’atteggiamento decoloniale è più aggressivo. Non a caso: le ceneri dell’imperialismo sono ancora calde, dalla segregazione delle banlieue alla proibizione del velo e della qam isa islamica, dalle scuole alle strade. I motivi per riattizzarle non mancano. Mentre Macron, in segno di pace con le minoranze, con una cerimonia di insolita solennità, il 21 febbraio ha portato al Panthéon i resti di Missak Manouchian, eroe armeno della Resistenza caduto 70 anni fa, le atlete francesi non potranno portare il velo nei Giochi Olimpici, «perché la Francia è legata a uno stretto regime di laicità».
Nell’intreccio dei suoi moventi e temi, il wokismo finisce inaspettatamente per saldarsi con l’ondata contro l’Occidente en bloc che muove dalla Russia di Putin e dalla Palestina in fiamme. Incrocio singolare, ma dagli esiti imprevedibili e rischiosi. In Francia, l’inquietudine si avverte da tutti i lati. Da destra il filosofo Jean-François Braunstein, che vede nel wokismo una fede fanatica ( La religion woke è il titolo di un suo libro), teme che, nella ricerca aggressiva della purezza primeva, si possa arrivare (come qualche wokista radicale ha proposto) a “decolonizzare la matematica […] come disciplina troppo astratta e formale” e a mettere i “saperi indigeni” al posto della scienza moderna. Da sinistra, nel recentissimo Quand il aura vingt ans (Fayard), la politologa Chloé Morin segnala che il wokismo, con le sue interdizioni e censure, è un globale rischio per la democrazia, soprattutto quella “universalista” alla francese. In Italia, di questo tema sembrano essere in pochi ad accorgersi. Il diffondersi della cultura woke costringe di certo a puntare lo sguardo sulle insopportabili ingiustizie e discriminazioni di cui la storia pullula, nel materiale come nel simbolico, e ha acceso un faro spietato su molti ambiti trascurati. Ma, in generale, se la ricerca di nuovi equilibri si manifesta come censura, autocensura (anche preventiva), discriminazioni in nome della lotta alla discriminazione e intimidazioni paralizzanti, sarà bene scrutare con cura il moto delle onde e cercar di capire dove possono arrivare.