giovedì 7 aprile 2016
È italiano il faraone del Volley d’Egitto
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L’«Imperatore». Lo chiamano così da quando ha riportato il sorriso a Castellana Grotte dopo mesi di sconfitte e delusioni. Era il 2010 e da allora non si è più fermato. Flavio Gulinelli, astigiano classe 1958, allenatore di pallavolo tra i più stimati a spasso per la Penisola, ha coronato il sogno di una carriera: guidare una nazionale alle Olimpiadi. Storia di quattro mesi fa. Gulinelli riceve la proposta di prendere in mano le chiavi dello spogliatoio della nazionale di pallavolo dell’Egitto mentre è impegnato a dettare regole e schemi al Mol-fetta, squadra del massimo campionato italiano. Rio chiama, lui risponde. E dice sì. In Egitto fanno festa, a Molfetta meno, delusi per un addio insolito e per certi versi inspiegabile. «È una ferita aperta, ma l’Olimpiade è l’Olimpiade, come potevo rifiutare?», spiega il tecnico che ha vinto due scudetti alla guida di Parma, da secondo del brasiliano Bebeto, il quale ereditò la panchina azzurra di Julio Velasco. Gulinelli vola in Africa nel novembre scorso e prende base a Il Cairo. Già, ma il terrorismo? «Il terrore più che altro... A Sharm el Sheikh, meta turistica tra le più conosciute dagli appassionati di immersioni subacquee, i resort sono deserti. La paura di nuovi attentati ha avuto la meglio su tutto, spiegano i tiggì, anche sul divertimento. Ma l’esperienza insegna e spesso risolve». Spiega Gulinelli: «Qualche giorno fa mi trovavo in strada a notte fonda con i bagagli per attendere il taxi che mi portasse all’aeroporto. Non è successo nulla, chissà se sarebbe andata allo stesso modo in Italia?». Ecco, appunto. Alzi la mano chi ha la risposta certa nel taschino. «In quattro mesi non ho mai avuto avvertito la sensazione di essere in pericolo. È chiaro che la mia è una posizione privilegiata: vivo in una zona relativamente tranquilla e ovviamente non frequento le manifestazioni di piazza. E poi, sono diventato un personaggio pubblico, mi fermano per stringermi la mano e farmi i complimenti. Il caso Regeni? Povero ragazzo... Ma se non chiedi, nessuno te ne parla». L’Egitto alle Olimpiadi: pochi atleti, pochissime squadre. «Soltanto due nazionali egiziane (entrambe maschili) hanno ottenuto il pass per Rio, pallavolo e pallamano. Per questo hanno accolto con grande entusiasmo la notizia della nostra qualificazione, conquistata a gennaio in Congo. In Egitto, il volley non è tra gli sport più seguiti, ma dopo l’esclusione della rappresentativa di calcio siamo diventati la squadra che ha restituito l’orgoglio a un Paese intero». L’inizio di una visibilità mai raggiunta in passato. «Sono stato ospite in numerose trasmissioni televisive, volevano sapere come ci stiamo preparando e quali sono i nostri obiettivi. Sono stato onesto, per noi vincere anche soltanto una partita sarebbe come vincere una medaglia ». Lo dicono i numeri. Nelle tre partecipazioni olimpiche, la nazionale di pallavolo egiziana ha portato a casa un set e nulla più: 15 sconfitte in 15 partite. «Ai miei giocatori ho raccomandato di non porsi limiti. Ne sono convinto, se scendiamo in campo con le giuste motivazioni, possiamo fare benissimo. Anche mettere in difficoltà le squadre più forti al mondo». Il Ramadan, la prima grande prova da superare.   «Giugno sarà il periodo più complicato della nostra preparazione. Perché inizia il Ramadan e per un mese i giocatori dovranno allenarsi mangiando soltanto una volta al giorno, la sera. Ne sto parlando con i miei collaboratori, troveremo le giuste contromisure». L’Egitto non è l’Italia. Tante le differenze, fuori e dentro una palestra. Racconta Gulinelli: «Pensi che a dicembre ho dovuto posticipare l’inizio degli allenamenti per consentire ad alcuni collaboratori di pregare. Non l’ho presa benissimo, ma non potevo fare altrimenti. Sono un pragmatico, abituato a ragionare con i fatti e ad assumermi le responsabilità, ma da quelle parti tutto ciò che capita viene considerato volontà di Allah. Anche camminare per una ventina di minuti perché si è dimenticato dove si è parcheggiata l’automobile. È successo a novembre, al mio arrivo in aeroporto. Il primo impatto con il traffico del Cairo poi, è stato da brividi. Non ci sono regole, capita spesso di incrociare macchine che viaggiano in senso contrario senza alcuna remora, come se fosse normale». Passata a pieni voti la prova di ambientamento, Gulinelli guarda lontano. «Mi piacerebbe rimanere in Egitto anche dopo le Olimpiadi, perché credo che ci siano i presupposti per fare un ottimo lavoro. Sto anche imparando l’arabo, perché a Rio vorrei riuscire a parlare con i miei giocatori nella loro lingua, ma non potrò aspettare a lungo la decisione della federazione. Non voglio fermarmi, non ce la farei a prendere una pausa. Mia moglie lo sa, a casa non so stare». Ventuno panchine in diciassette anni di carriera, tra squadre di club e nazionali, leggi Italia e Brasile come assistente, quindi Austria, Portogallo e Slovacchia come primo allenatore. A Gulinelli piace cambiare. «Ho scelto sempre per il meglio, sono stato fortunato». Con la nazionale azzurra, il primo grande rammarico. «Sono stato il numero due di Bebeto nel biennio 1997-99, stavamo lavorando alle Olimpiadi di Sydney, poi è tutto naufragato, peccato». A Cuneo, stagione 2011-12, l’occasione di gloria che si trasforma in un tormento. «Dopo la prima settimana di raduno, avevo già chiamato il mio agente per dirgli che non era il posto che faceva per me. È un rapporto che non è mai davvero iniziato». Tracce di un passato chiuso per sempre in un cassetto. Asti, Il Cairo, e adesso un volo per Rio 2016: la direzione di un sogno inseguito fino in fondo e che sta per compiersi.
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