Continua lo stillicidio mediatico con cui si cerca di infangare, sulla asserita base di “nuovi documenti”, la figura di Giovanni Palatucci, il funzionario di polizia arrestato a Fiume nel 1944 dalle SS, detenuto e torturato al carcere Coroneo di Trieste, deportato a Dachau dove, numero 117826, morì a 36 anni per avere aiutato ebrei e perseguitati dai nazisti e avere tentato di salvare l’essenza culturale, se non l’italianità, di Fiume. Difficile oggi cogliere il sentimento che guida tanta acre voglia di revisione. In una recente intervista su un quotidiano triestino il professore Marco Coslovich definisce Giovanni Palatucci «un pover’uomo che fu protagonista di qualche gesto di cortesia, ma che eseguiva ordini superiori e non aveva né i mezzi né la possibilità di fare da solo tutto quel che gli viene attribuito».Io non sono uno storico, ma solo un funzionario di polizia, peraltro scomodo per l’amministrazione che non ha mai mitizzato la figura di Palatucci. Della statura professionale e cristiana di questo sventurato collega sono rimasto affascinato sin da quando nel 1992 lessi di lui attraverso il libro, ricco di testimonianze, A Dachau per amore, del suo concittadino Goffredo Raimo, ora scomparso. Da allora ho cercato di documentarmi, verificare, sentire esperti, rintracciare testimoni. Il senatore Vittorio Foa, ebreo arrestato durante il fascismo, mi mise in contatto con Coslovich, professore a Trieste, che aveva approfondito il tema dell’occupazione tedesca del Litorale austriaco (“Adriatisches Kustenland”) e della repressione contro gli ebrei e che si era anche lui imbattuto (positivamente, come scrisse sulla “Rassegna mensile di Israel”, volume LXI, 1995) in Palatucci nei suoi uomini della questura. Collaborammo in reciproca stima e simpatia, lui da Trieste io a Roma. Piansi leggendo presso l’Archivio nazionale di Stato il fascicolo di Giovanni Palatucci, la corrispondenza che lo riguardava, le sue relazioni prima dell’arresto da parte della Gestapo. Inviai al professore Coslovich fotocopie dei documenti: da tutti emergeva la straordinaria figura di Palatucci. Nel 1995 andai a Fiume, da solo, per visitare i luoghi dove aveva vissuto e lavorato, la casa in via Pomerio vicino alla sinagoga poi distrutta dai tedeschi, la questura dove fino all’ultimo aveva voluto sventolasse il Tricolore, la prefettura divenuta dall’ottobre ’43 sede del comando tedesco con la bandiera del Terzo Reich. Lo immaginai pregare solo e in tormento nella vicina chiesa di San Vito dal miracoloso crocefisso. Il giorno dopo Coslovich mi raggiunse da Trieste con la signora Maddalena Werczler, ebrea che non vi tornava dal 1940 quando i suoi genitori, e lei bambina, erano potuti sfuggire alla repressione razziale grazie all’aiuto di Palatucci. Tornammo insieme in auto tristi e fieri. Sono rimasto in contatto con la signora Werczler; ho cercato invano il professore Coslovich. «Molte cose – mi ha scritto – ci uniscono: una certa coerenza, determinazione, ricerca della verità, ma c’è anche una profonda differenza. Tu hai il dono della fede; c’è in me un senso profondo di smarrimento verso l’uomo che credo sia abbandonato da Dio, ammesso che esista».Al di là della mia inquietudine spirituale, questa diversa impostazione trascendente, di cui oso riferire solo perché lui mi ha citato nell’intervista, penso abbia influito nell’attuale attacco mediatico verso Palatucci. Contro chi e cosa? La ritenuta enfasi della comunità ebraica, del ministero dell’Interno, del Vaticano? Hanno sbagliato tutti, testimoni, membri di commissioni, postulatori? In tale quadro è vale qualcosa ribattere anche su singoli punti? Ad esempio, laddove il colonnello delle SS Kappler scrive che «Palatucci fu arrestato per avere mantenuto contatti col servizio informativo nemico», si sottilizza che non si parla di aiuto agli ebrei! Ma non erano essi, dall’entrata in guerra dell’Italia accanto a Hitler, “nemici del Reich”? E proprio Kappler non aveva appena massacrato nelle Fosse Ardeatine italiani cristiani ed ebrei, senza distinzione? O laddove si liquida con un «è tesi molto debole» la relazione del 1955 in cui Antonio Luksich Jamini, non un visionario ma nun membro di Giustizia e Libertà arrestato a Fiume prima dai fascisti e poi dai titini, scrive: «Il Cnl fiumano esortò il dottor Palatucci a restare al suo posto onde “il canale” continuasse a funzionare per gli ebrei […]. Così il dottor Giovanni Palatucci divenne il dottor Danieli, del movimento di liberazione nazionale». Sarà sempre più difficile trovare riscontri documentali giacché i partigiani italiani, combattenti dapprima fianco a fianco con quelli slavi contro i tedeschi, non ebbero poi vita facile in una Fiume già assegnata a Jalta al maresciallo Tito. Arrigo Boldrini, medaglia d’oro della Resistenza, con cui Vittorio Foa mi mise in contatto, confermò tale difficoltà ma anche il verosimile ruolo di Palatucci. Perché allora infierire su un funzionario di polizia che, operando con una forte visione cristiana in uno sciagurato contesto di regime e di guerra, cercò di fare quel che poté, a rischio della vita? Perché non cercare di sentire il tormento e lo spirito in lui? In un verbale del luglio ’44, inviato al prefetto, al consigliere tedesco Pachnek e al comandante della Milizia fascista, c’è la sua frase: «In materia di dirittura morale io rendo conto alla mia coscienza che è il giudice più severo immaginabile, e se necessario ai miei superiori gerarchici». La signora Swartz, ebrea capitata in brutto momento in questura, racconta di essere stata da lui affidata a un collega con la raccomandazione: «Trattala come se fosse tua sorella in Cristo!». Ma non afferma il Talmud: «Chi salva una vita ha salvato l’umanità»? Il Giusto si sente col cuore.È lapidariamente stupenda la descrizione di Paolo Santarcangeli, avvocato e poeta ebreo, fermato in questura il 18 giugno 1940, che da lui fu aiutato: «Chi era Giovanni Palatucci? Solo un piccolo commissario di polizia. Non aveva la vocazione dell’eroe: ma era un uomo pietoso. Furono i tempi a farne un eroe. Era piuttosto minuto, curato nella persona, d’un colorito pallido, esile, salute cagionevole. Amava la vita, gli scherzi, le nostre ragazze: in quel tempo era innamorato di una giovane, combinazione ebrea. Era patriota, ma le intemperanze dei fascisti gli davano fastidio e considerava come un’onta personale il razzismo in crescente espansione. Eravamo piuttosto amici. Nonostante ciò ci davamo del lei. La sua sorte è preso narrata. Aiutò in tutti i modi ebrei, slavi, antifascisti arrestati: voleva fare sentire che l’Italia era ancora un Paese civile. Tentava di riscattare le istituzioni che serviva e della quali allora dovette sentire vergogna. Consolò gli afflitti, soccorse i derelitti. Favorì qualche evasione. Scoperto e torturato dai tedeschi fu mandato in capo di sterminio, in Germania. Non ne tornò» (da Cattività babilonese, Del Bianco Editore, Udine 1987; con presentazione di Leo Valiani, fiumano).
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