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Dal 21 al 25 novembre, a Milano, Gariwo proporrà una riflessione pubblica per discutere sulla terapia contro l’odio nel mondo contemporaneo (per maggiori informazioni: gariwo.net/festival). Non è forse odio quello della polizia morale di Khamenei che picchia e uccide le donne iraniane? Non è odio quello dell’esercito di Putin che vuole negare agli ucraini di esistere come nazione libera? Non è odio quello di Trump, che ingannando la gente con la grande bugia sul risultato elettorale, vorrebbe mettere in discussione la democrazia americana? Non è odio quello che colpisce gli ebrei che si battono per il diritto all’esistenza del loro Stato? O che, a differenza del leader del partito sionista religioso Itamar Ben-Gvir, vorrebbero la convivenza con i palestinesi? Non è odio quello che respinge le navi dei migranti? C’è un metodo per non farsi condizionare e ritrovare il coraggio, quando sembra che il potere delle autocrazie e dei fanatici sia più forte di noi, e si ha la sensazione che l’odio sia una malattia inguaribile? «Vivere e pensare la verità nella propria esistenza quotidiana», suggeriva Vaclav Havel a Praga ai tempi del comunismo, quando proponeva di resistere attraverso la realizzazione personale di una autenticità umana. Quando nelle nostre relazioni coltiviamo un mondo plurale e dialogico, non solo troviamo la via della non rassegnazione, ma diventiamo l’anello di una catena di solidarietà umana e di resistenza all’odio più grande di noi. Nei suoi venti anni di attività, Gariwo ha elaborato una strada nuova per prevenire e combattere il meccanismo del disprezzo e della disumanizzazione dell’altro, che se non viene bloccato nel linguaggio, nelle parole, nei comportamenti sulla scena pubblica, può essere l’anticamera di un male estremo. È ciò che osservava Agnes Heller, quando spiegava le stazioni intermedie, di cui spesso non siamo consapevoli, che possono portare all’ultimo binario dell’abisso. Percorriamo questa strada attraverso i Giardini dei Giusti, il cui scopo educativo è quello di insegnare ai cittadini a diventare consapevoli del tempo scardinato in cui vivono. Senza uno sguardo dall’alto, spiegava Pierre Hadot, non siamo in grado di uscire dal nostro ego e andiamo contro forze che ci sovrastano. Per questo Gariwo si sforza di trasmettere l’informazione attraverso le storie degli uomini giusti, che difendono la libertà e la dignità nelle situazioni di emergenza e che con il loro esempio ci invitano a conoscere prima e a scegliere poi. Ma poi il passo successivo, come osservava Dante, è che non ci può essere vera conoscenza senza virtù: «Considerate la vostra semenza, fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza». Chi ha compiuto il bene può avere l’effetto di accendere l’umano sopito e la terza intelligenza che c’è dentro di noi, facendoci comprendere che l’odio e l’indifferenza ci fanno stare male e che una vita autentica ci rende più felici. L’odio in qualsiasi parte del mondo deturpa la natura di cui siamo parte e distrugge la bellezza. Qualche giorno fa ero ospite della scuola della pace di Rondine, dove studenti di tutto il mondo, raccolti ogni anno in un corso di formazione da un uomo saggio come Franco Vaccari. Uno studente serbo mi ha posto la domanda più difficile. «Perché quando si reagisce e si prende posizione nei confronti di un male o di una tragedia diffusa sui media, ci si dimentica di tutto il resto e si diventa indifferenti agli altri mali? Quando si diventa empatici nei confronti di una ingiustizia non si rischia di mettere in secondo piano altre ingiustizie? Per esempio ora si parla dell’Ucraina e ci si dimentica del Libano, dell’Afghanistan, dell’Iran, dello Yemen». Non ci potrà mai essere una soluzione definitiva al problema, perché ogni uomo è parziale, ha sempre un rapporto con la prossimità che gli compete e non potrà mai essere un Dio che si assume su di sé la totalità delle ingiustizie. Ma c’è una chiave che ci permette di risolvere questo cortocircuito e che ci avvicina all’insieme. È la nostra capacità di leggere sempre l’universale in ogni tragedia e di cogliere in ogni fenomeno particolare lo spirito del nostro tempo. È il metodo di Primo Levi che nei Sommersi e salvati ci invita a comprendere, a partire dalla Shoah, la zona grigia che può riguardare tutti gli esseri umani. È per questo che spesso, come ebreo, sostengo che la memoria dell’Olocausto debba essere inclusiva e non portare alla separazione dagli altri. Così come oggi invito gli ucraini, nella loro sacrosanta resistenza militare, a essere solidali con gli oppositori russi a cui Putin ha dichiarato una guerra interna. Quando si coglie l’universale in un genocidio, o in qualsiasi crimine contro l’umanità, ci si avvicina a tutte le tragedie evitando così una concorrenza e una gerarchia del dolore. Ecco perché la terapia contro l’odio nasce sempre da un desiderio di condivisione di un comune destino.