sabato 21 gennaio 2017
Dieci anni fa la morte dell’autore polacco che rivoluzionò la funzione e lo stile del reportage
R. Kapuscinski

R. Kapuscinski

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Un dato sembra irrefutabile: Ryszard Kapuscinski non poteva stare senza scrivere. Anche negli ultimi giorni di vita, ricoverato in ospedale in attesa d’un delicatissimo intervento al pancreas, che lo avrebbe poi condotto alla morte il 23 gennaio 2007 a settantacinque anni non ancora compiuti, lo scrittore prendeva appunti o annotava versi, compilando così una specie di taccuino della degenza, trasformandosi nel reporter della propria malattia. Ecco: «L’infermiera mi attacca la flebo: lentamente ritorno alla vita». Oppure: «Va meglio di minuto in minuto – ho voglia di piangere dalla gioia». E ancora: «Come hai potuto / abbandonarmi così / forza misteriosa / che chiamano vita?». Senza trascurare di esercitare, anche in condizioni quasi disperate, quella sua spasmodica, infinita, curiosità nei confronti del mondo.

Così il 14 gennaio: «Ho concluso Gli emigrati di W. G. Sebald». Ma che scrittore è stato questo inesausto viaggiatore? Come testimoniano anche le citate riflessioni terminali, l’imperativo dello scrittore polacco è stato sempre lo stesso, relativo a un oggettivo dato di realtà, da rapportare continuamente al proprio “io”. Un imperativo, se si vuole, così traducibile: registrare, conoscere e comprendere. C’è però da aggiungere che tra quei dati di realtà Kapuscinski prediligeva quelli non inerti, il più possibile dinamici, e cioè gli altri uomini, capaci di pronunciare, con lo stesso suo diritto, la parola “io”. Poco importa se vicini o lontanissimi nel tempo e nello spazio.

Per lui, più del fatto, contò sempre l’incontro. Fermo restando che l’incontro è una relazione, e che la relazione si sviluppa sempre nel dialogo (non a caso, importantissima gli fu la lettura di Lévinas) , all’interno d’un sistema di valori, che variano da cultura a cultura: laddove quella differenza fruttifica non come scontro, ma solo come scambio, a consentire il reciproco riconoscimento. Qualcosa vorrà dire infatti se alla sua Polonia dedicò un solo libro di reportage, scritto alla fine degli anni ’50, Giungla alla polacca (1962), scegliendo per meta ogni terra che fosse comunque oltre frontiera, soprattutto linguistica.

Per rendersi conto di ciò, basterebbe citare il solo titolo di alcuni suoi libri: Se tutta l’Africa (1969); Il Negus: splendori e miserie di un autocrate (1978), nato dal soggiorno ad Addis Abeba due ani dopo la deposizione di Hailé Sellasié; Shah-in-Shah (1982), dedicato all’Iran, tra la fuga dello Scià e il ritorno dall’esilio di Khomeini; Imperium (1993), che ci restituisce un viaggio nelle quindici repubbliche sovietiche, effettuato tra il 1989 e il 1992; Ebano (1998), non un libro sull’Africa – come scrisse nella nota che introduce al testo – «ma su alcune persone che vi abitano »; e, soprattutto, In viaggio con Erodoto (2004).

Opere in cui ciò che conta, nella divaricazione delle differenze, è un’empatia programmatica, che potremmo definire evangelica, esercitata nei confronti degli ultimi: se è vero che anche la sua in- fanzia a Pinsk, ai confini d’una Polonia che oggi è Bielorussia, tra sterpaglie e acquitrini, fu derelitta. Già il suo primo libro importante, Il Negus, che gli diede il successo mondiale, sconvolse e rivoluzionò il genere del reportage: impiego massiccio di tecniche narrative; documentazione storico-antropologica e letteraria di prima mano; invenzione ex novo d’una lingua che fosse funzionale all’obiettivo rappresentativo. Kapuscinski, in effetti, non è interessato al Negus in sé, che quasi mai compare, ma alla sua corte, ai meccanismi del Potere, ai codici e alle liturgie, ai processi di assoggettamento volontario che generano una dittatura.

Ancora una volta, oltre la differenza, lo scrittore cerca le somiglianze, in vista dell’universale umano: non per niente, in Polonia, molti lessero lì un riferimento al regime di Gierek, È però nel capolavoro In viaggio con Erodoto che Kapuscinski raggiunge i risultati più alti: in termini di autoconsapevolezza critico-letteraria, di invenzione epistemologica, di qualità stilistica. Nel confronto, appunto, col grande greco, nato anch’esso alla periferia della sua patria e avvertito, quasi da subito, come una presenza fraterna, il primo e il più autorevole dei reporter: l’Erodoto equilibrato e non partigiano, il letterato di razza però attento ai documenti e alla verifica delle fonti, alla voce dei testimoni e rispettoso di ogni punto di vista, l’attenzione alle diverse culture in gioco nello scontro di civiltà che si trovò a raccontare. In viaggio con Erodoto è un libro entusiasmante e sorprendente sin dalla struttura: là dove il mettersi sulle tracce del grande greco, significa consegnarsi ai diversi capitoli di un’autobiografia dell’ombra, della propria ombra, nel mentre, grazie alle sue Storie, diventava possibile leggere in filigrana, dentro tempi tanto remoti, quelli oscuri e infelicissimi della Polonia staliniana e poststaliniana.

Bisognerà ancora aggiungere – ed è notazione cruciale – che in questo singolarissimo libro Kapuscinski sperimenta al meglio quella sua idea del viaggio come movimento da fermo che, di quello reale, diventa, diciamo così, la condizione trascendentale, anticipandolo e poi accompagnandolo. Si riferisce al primo viaggio in India: «Scoprivo che un medesimo viaggio si poteva prolungare, ripetere e moltiplicare attraverso la lettura dei libri, lo studio delle mappe, l’osservazione delle immagini e delle fotografie ». Per arrivare a sottolineare i vantaggi di questo movimento mentale su quello fisico, nel senso che «permetteva di fermarsi, osservare con calma, tornare all’immagine precedente», cosa che spesso il viaggio vero non consentiva. Credo che l’eredità più vera di Kapuscinski andrebbe forse cercata – attraverso tutti i suoi libri di viaggio, ma senza dimenticare gli appunti dei sei straordinari volumi di Lapidarium (1990-2007) – in una costante riflessione sul vedere: laddove a contare non è, in fondo, quel che si vede, ma come lo si faccia.

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