Vittorio Emanuele II - Ansa
La morte di Vittorio Emanuele di Savoia, avvenuta a Ginevra, richiama alla mente un evento storico cruciale nella storia d’Italia: il passaggio dalla monarchia alla repubblica. Aveva 9 anni quando suo padre, Umberto II, ultimo re d’Italia, il 13 giugno 1946 lasciò Roma per Cascais, presso Lisbona, dove sarebbe rimasto in esilio fino alla morte nel 1983. In quel passaggio drammatico, il figlio Vittorio Emanuele non ebbe un ruolo, anche se quell’evento ha segnato profondamente tutta la sua vita. Erede al trono che non è mai diventato re non è perciò entrato nella storia, anche se di lui si è occupata molto la cronaca, compresa quella giudiziaria. Ma è impossibile parlarne senza ricordare quel grande passaggio storico, anche per il nome impegnativo che portava: Vittorio Emanuele II infatti è stato il re dell’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele III colui che ha aperto le porte al fascismo. Quel passaggio non fu scontato. Fu infatti affidato a un referendum, quello del 2 giugno 1946, da cui scaturì una vittoria della repubblica netta ma non massiccia. La scelta sarebbe potuta avvenire anche in altro modo e il referendum fu il risultato di una convergenza tra gli Alleati e i settori conservatori italiani che temevano un salto nel buio: era infatti presumibile che la maggioranza dei costituenti sarebbero stati per la repubblica, mentre era noto che molti italiani volevano conservare la monarchia, come i risultati del referendum confermarono.
Si dovette attendere qualche giorno perché la Cassazione certificasse l’esito del voto, ma molto presto si diffuse la consapevolezza che aveva vinto la repubblica. La permanenza in Italia del re cominciò ad essere interpretata dai suoi sostenitori come un disconoscimento implicito di quel voto, da cui trarre motivo per contestarne l’esito e a sperare in un suo ribaltamento. Sarebbe stata la guerra civile. De Gasperi, allora presidente del Consiglio, assunse la carica di capo provvisorio dello Stato e nella notte tra il 12 e il 13 giugno si recò dal re per prospettargli la situazione e per chiedergli di trarne le conseguenze. Umberto prese volontariamente la via dell’esilio compiendo un gesto di qualità diversa dalle molte scelte discutibili compiute fino a quel momento dalla monarchia e in particolare da suo padre. Fu una decisione dolorosa che ci è sembrato a lungo ovvia, dovuta e non particolarmente meritoria. Ma oggi, anche in democrazie che credevamo definitivamente consolidate, c’è chi rifiuta di accettare l’esito delle urne, lacerando il proprio Paese e mettendo a rischio le istituzioni: Umberto II non lo fece ed è giusto dargli merito. Così come si deve riconoscere a suo figlio che, come ha egli stesso ricordato, «il primo atto come erede di Casa Savoia quando [gli fu concesso di tornare in Italia] nel 2002 è stato una lettera di condanna di quelle leggi indirizzata al rabbino di Roma». È stata la prima volta che un Savoia ha condannato quelle leggi. In realtà, la controfirma apposta da Vittorio Emanuele III alle leggi razziali, non fu un semplice “errore”, come lo ha definito il nipote appena scomparso: controfirmandole, il re si macchiò di una colpa assai grave. Il destino storico sia di Umberto II sia di suo figlio – per Emanuele Filiberto non sembra più così - è stato quello di dover rispondere di atti che non hanno commesso, considerati più gravi e più importanti di quelli da loro compiuti (nel caso di Vittorio Emanuele è impossibile dimenticare l’omicidio del giovane Dirk Hammer all’isola di Cavallo e dei suoi tentativi per evitare una condanna, che infatti non è mai arrivata). Ma è inevitabile che si debba rispondere delle scelte dei propri padri o dei propri nonni quando una famiglia diventa il cardine di uno Stato e viene identificata con la storia di un popolo, come è accaduto per casa Savoia.
Le colpe di Vittorio Emanuele III hanno spezzato questo legame. Questo re, infatti, aprì le porte al fascismo, rifiutandosi di ordinare lo “stato d’assedio”, una misura obbligata davanti al tentativo di colpo di Stato mussoliniano del 28 ottobre 1922. Era solo un tentativo e per di più male organizzato, ma che ebbe successo per la mancata resistenza delle istituzioni e di cui la massima espressione fu costituita proprio dal tradimento del re nei confronti del suo popolo. Chiamati a una scelta solenne il 2 giugno 1946, gli italiani non poterono dimenticarsi di tutto questo e ciò costituì un motivo rilevante perché la repubblica prevalesse, anche se molti italiani non avevano una chiara coscienza repubblicana e non sapevano che cosa sarebbe successo.
Ma non è stato un salto nel buio. La Costituzione ha delineato una figura di presidente della Repubblica per alcuni aspetti simil-monarchica, modellata su quella del re nella monarchia di luglio, il regime costituzionale introdotto in Francia dalla rivoluzione del 1830. Nel complesso ne è emersa una figura equilibrata che ha goduto, specie negli ultimi decenni, di grande consenso popolare e che non si dovrebbe archiviare con troppa superficialità. In Italia, infatti, il presidente della Repubblica ha fuso il carattere parlamentare del sistema politico con un’opera di bilanciamento soft che non contraddice la centralità del Parlamento – unico vero rappresentante del popolo in un regime democratico - ma al contrario la rafforza. In concreto, dal 1946 ad oggi i poteri del presidente sono stati esercitati in modo più ampio o più ristretto nelle diverse situazioni - e in grandissima parte coloro che hanno rivestito questa carica li hanno utilizzati con senso di responsabilità, a seconda delle necessità del Paese, a differenza di quanto avevano fatto in precedenza i Savoia. In concreto, quando il Parlamento e i partiti che animano la dinamica politica sono stati in grado di garantire in modo soddisfacente l’andamento della vita pubblica, i presidenti si sono astenuti dall’intervenire. Quando invece tale andamento si è inceppato, sono intervenuti in modo incisivo. Da ultimo è accaduto con Mattarella che, con pazienza e sacrificio personale, ha permesso alle forze politiche di superare un difficile momento di incertezza e confusione – all’inizio della scorsa legislatura – mentre è intervenuto incisivamente in un momento di grave impasse politica – alla fine della stessa legislatura. A poco meno di ottant’anni dal referendum istituzionale, si può dire che quella consultazione ha portato a una scelta felice.