mercoledì 26 ottobre 2016
Pietro Paolo Virdis si racconta
Pietro Paolo Virdis, calcio e vino. Il gusto vero della vita
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Si dice che il bomber non perda mai il vizio del gol. Nel caso di Pietro Paolo Virdis il gol era e rimane un "gusto", una portata da servire nel menù. Ed è quello che una volta appese le scarpe al chiodo (ultima stagione a Lecce nel 1992) ha continuato a fare, evitando la scrivania da dirigente, la panchina dell'allenatore («tranne un paio di stagioni tra Atletico Catania e Nocerina»), ma piazzandosi dietro al bancone del suo locale milanese, "Il gusto di Virdis". Da pranzo a cena, Pietro Paolo continua a dribblare tra i tavoli nella sua osteria dove la chef sopraffina è la moglie Claudia, «stiamo assieme da una vita». Sottofondo jazz di John Coltrane, e Virdis passa leggero con la stessa andatura dinoccolata -con cui fintava mettendo a sedere Zenga in un derby anni '80 vinto con il Milan - , e parte la ola dei venti paganti (massima capienza del locale) all'arrivo del "Calzettone del bomber" o della "Pergamena di Gottiau". Il "pane" della sua Sardegna dove è nato 59 anni fa, a Sindia (Nuoro). Anche il pullover autunnale è calato giù, "fuori dai calzoni", come faceva con la maglia numero "11". La prima gliela diede il Cagliari. E il ragazzo con il baffo perenne («ora si è un po' imbiancato») l'ereditò dal mito, Rombo di tuono Gigi Riva. Con stacco regale da Massinissa (così lo ribattezzò Gianni Brera), come quando incornava di testa, sale sullo scaffale per prendere una bottiglia di Cannonau. «Vi stappo un Surrau, splendido, voto 10... - sorride - Fare questo mestiere è meglio del calcio? No, è un modo diverso di regalare delle gioie: ieri lo facevo segnando gol, oggi offrendo dei piatti e dei vini di qualità ai clienti, molti dei quali sono miei tifosi, da sempre». Allo stadio e in tv Virdis si vede poco e stasera, visto che lavora fino a tardi all'osteria, il big match Milan-Juventus non lo vedrà. «Vero, ma quando posso non perdo una partita alla tv. Il calcio rimane il mio grande amore: la magia di undici calciatori che sfidano altri undici non potrà mai essere cancellata, nemmeno dal peggiore degli scandali. Tutto il resto, ciò che accade fuori dal campo, non mi piaceva allora, figurarsi adesso che è diventato così complicato, urlato, incasinato...».

Quarant'anni fa quando giocava nel Cagliari (con cui aveva debuttato 17enne) liquidò la chiamata della Juventus con un secco «no». Lo fece per imitare Gigi Riva?

«Il no di Riva arrivò dopo aver vinto uno scudetto (1969-70). Io lo feci dopo la delusione di uno spareggio promozione a quattro in cui solo il Cagliari non salì in Serie A. Perciò decisi di restare. Più che un atto dovuto fu un gesto di quelli che fai a vent'anni... Ma lo rifarei anche a sessanta». Poi alla fine, nell'estate del 77 si "piegò" al pressing della Juve. «Erano tempi in cui il calciatore non aveva alcun potere contrattuale, se ti mettevi di traverso rischiavi di rimanere senza squadra. Così, in uno scantinato di Santa Teresa di Gallura, il Cagliari trovò l'accordo con Boniperti. Quanto mi pagarono? Boh, scrissero intorno ai due miliardi di lire, ma nel calcio, ieri come oggi, le cifre reali non le saprai mai».

Tre anni in bianconero e poi il ritorno in prestito per una stagione (1980-81) al Cagliari, seguiti dal "richiamo" alla Juve.

«I primi tre anni andavo a corrente alternata. Ero giovane e davanti a me c'erano campioni come Bettega e Boninsegna. Tornato a Cagliari capii che era tempo di fare il grande salto, e chiesi di riprovarci. L'anno dopo disputai una gran stagione contribuendo con i miei 9 gol alla vittoria dello scudetto».

Ma non bastarono, l'estate della vittoria dell'"ItalJuve" al Mundial di Spagna '82 lei veniva inspiegabilmente scaricato, ceduto all'Udinese.

«Ci rimasi malissimo. Pensavo di aver conquistato la piena fiducia di pubblico e società, e invece mi ritrovai a dover incassare una bocciatura e il tradimento di un dirigente... Non fu Boniperti, ma poco importa chi sia stato. Io so che lasciai una grande società e dei compagni rari, dei campioni del mondo di umanità come Scirea e Zoff. A Udine la ferita si rimarginò, in parte, grazie al grandissimo Zico con cui feci uno splendido campionato e il mio dovere di attaccante fino in fondo».

Un lavoro talmente ben fatto da finire nella lista della spesa del nuovo Milan, quello dell'inizio dell'era Berlusconi.

«A Torino avevo appena sfiorato l'Avvocato, Gianni Agnelli: grande classe, ma a me in quattro anni non ha mai telefonato neppure una volta. Con Berlusconi invece ho avuto modo di parlare e di confrontarmi spesso. E quel carisma che trasmetteva è stato uno degli ingredienti fondamentali che hanno reso il Milan il club più titolato del mondo».

Parla da tifoso rossonero.

«La Juve è stata una grande scuola di vita, ma il mio cuore batte per il Milan dove ho vinto tutto. A Milanello ho avuto un maestro di campo come Nils Liedholm; a fine allenamento ci faceva assaggiare i vini della sua cantina di Cuccaro. Nell'interregno tra il "Barone" e l'arrivo di Arrigo Sacchi ho anche avuto Fabio Capello. Il migliore? Tre grandi, ma la rivoluzione nel nostro calcio l'ha fatta solo uno, Arrigo».

Epocale fu la sua doppietta del sorpasso tricolore al Napoli, il 1° maggio 1988. «Quelle sono imprese che ti fanno campare di rendita nell'immaginario affettivo dei tifosi, ma la memoria nel calcio è merce rara quanto l'amicizia.

Quella del San Paolo fu una partita vera, combattuta. Maradona aveva paura, altrimenti alla vigilia non avrebbe chiesto ai napoletani: "Voglio vedere uno stadio tutto azzurro". Alla fine quello stadio ha applaudito me e il Milan che con il 3-2 vinse partita e scudetto».

Merito di una squadra piena di campioni, a partire dal "cigno di Utrecht" Marco Van Basten.

«Marco è stato il più grande centravanti in un'epoca in cui in Serie A venivano a giocare solo i migliori del mondo. La Nazionale era sempre al top e vantava la migliore scuola difensiva. Noi al Milan avevamo delle muraglie come Franco Baresi e Paolo Maldini, gente a cui facevi fatica a segnargli anche in allenamento».

Paolo Maldini ha appena rifiutato di entrare nella dirigenza del Milan dei "cinesi", come se lo spiega?

«Credo che a Paolo non sono state date le giuste garanzie per lavorare con pieni poteri sull'organizzazione e il mercato. O forse questa nuova società non voleva davvero Paolo Maldini... Cosa penso dei cinesi? Saprò dirvelo a gennaio».

A gennaio questa Juve avrà il sesto scudetto di fila in tasca o qualcuno, vedi il Milan, forse potrà ancora dire la sua?

«La Juve oltre a Higuaìn ha preso dei campioni che dovrebbero garantirgli la vittoria in Champions nei prossimi due anni. Lo scudetto, per quanto si possano impegnare le concorrenti, penso che non sia in discussione. Montella al Milan, al momento sta facendo qualcosa che forse non immaginava neppure lui, e comunque vada merita un plauso per come sta valorizzando i giovani della rosa». C'è qualcuno degli attaccanti in campo questa sera a San Siro in cui Pietro Paolo Virdis si rivede? Uno forse sì, Bacca: vede la porta come il sottoscritto. Io però partecipavo di più alla manovra. - sorride sotto il baffo candido - Guardate come partecipo ancora qui tra i tavoli...».

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