Il critico ed esperto di editoria Giuliano Vigini - archivio
Da diverse settimane “Avvenire” sta sviluppando un dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato dagl i interventi di PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto e al quale hanno poi partecipato Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici ,Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini e Gabellini. QUI la raccolta completa.
Le puntuali e articolate note critiche di Roberto Righetto (“Avvenire”, 9 marzo), e i numerosi interventi che l’hanno seguita, e che proseguono l’analisi avviata in vari interventi degli ultimi anni, sono la testimonianza di un disagio avvertito per la precarietà della presenza e dell’azione della Chiesa nel campo della cultura. È importante non stancarsi di riaprire il dibattito su questo tema, per ripensare ciò che può e deve fare la Chiesa per riaccendere il discorso culturale, anche nella prospettiva di un servizio alla pastorale, con una maturata consapevolezza che la carità dell’intelligenza non si contrappone ma cammina fianco a fianco alla carità delle opere, perché, nutrendo i saperi della fede e coltivando i granai dello spirito, aiuta a diventare cristiani più formati ad affrontare le sfide del nostro tempo, capaci quindi di essere testimoni e annunciatori più credibili del Vangelo di sempre nell’oggi dell’uomo. L’impressione è infatti che, nel corso degli anni, il ruolo della cultura come dimensione essenziale dell’azione evangelizzatrice e della pastorale ordinaria della Chiesa si sia di fatto allentato, e in un cambio d’epoca come il nostro, in cui l’analfabetismo o la povertà religiosa, il dramma educativo e il vuoto antropologico assumono aspetti inquietanti, la necessità di rivitalizzare l’attività culturale come orizzonte, ponte e strumento dell’azione pastorale sta diventando un compito urgente. Anche per i cristiani aumenta infatti il rischio di pensare sempre meno e di accontentarsi di consumare la vita, senza in realtà viverla: lasciando, cioè, scorrere i giorni e poi scendere al capolinea senza neanche sapere qual è stato il viaggio. È triste pensare che si possa vivere così, e quindi ogni sforzo per evitare di restare inerti o indifferenti, continuando a domandarsi chi si è, dove si va e quale mondo si vuol costruire, è della massima importanza. La Chiesa nel suo complesso – vescovi, teologi, scrittori, artisti, uomini di cultura – è chiamata appunto al compito di ridestare questo senso smarrito del viaggio terreno e di aiutare tutti a viverlo in modo nuovo, con consapevolezza, coraggio e speranza. Da un lato, si tratta di riportare al centro i fondamenti della fede e della speranza cristiana, anche con una “teologia in uscita” da università e accademie per essere più vicina e in dialogo con il vissuto del popolo – come auspica papa Francesco e come ha recentemente ribadito il vescovo Antonio Staglianò, presidente della Pontificia accademia di teologia – ; dall’altro, si tratta di recuperare e rilanciare l’eredità di un passato di storia, dottrina e spiritualità ancora poco conosciuto dai più, rendendolo fruibile con opportune iniziative di sensibilizzazione e proposta; dall’altro ancora, di elaborare un pensiero idoneo, dal punto di vista teologico, ecclesiale e pastorale, alle realtà del presente. In altre parole, si tratta di riproporre con forza le domande antiche e di rispondere in modo nuovo ai problemi posti dall’evangelizzazione oggi; quali sensi o ricchezze nuove suscitare dall’annuncio cristiano; quali strutture, mezzi e linguaggio utilizzare nella catechesi e nella predicazione; in quali ambiti maggiormente lavorare per essere nuovo lievito e nuova sapienza, in grado di ricostituire l’alleanza che si è spezzata tra valori trascendenti e valori umani, e per ciò stesso dare a ogni progetto terreno il fondamento della sua verità e del suo pieno compimento. In questa prospettiva, sarebbe sbagliato pensare alla cultura come a qualcosa di accademico, di alto e inaccessibile, soprattutto di teorico e astratto, non calato nella quotidianità del vivere, avulso dalle questioni assillanti della gente e del mondo in cui si vive: le guerre e i conflitti, le vecchie e nuove povertà, la crisi ambientale e climatica, i drammi migratori, l’assenza di lavoro, il disagio giovanile, la mancanza di istruzione, non solo religiosa: ossia tutto ciò che degrada, espropria, avvilisce l’uomo, la sua dignità e la sua libertà. Una vera cultura dell’umano serve proprio anche a favorire una rivoluzione interiore che apra alla ricerca del bene e della felicità di tutti; che non si chiude a doppia mandata nella torre d’avorio di un individualismo e di un egoismo cieco, nell’indifferenza totale verso ciò che non è esclusivamente riferito al proprio io, ma ricerca ciò che unisce nella solidarietà, nella fraternità e nel servizio. Va da sé che, per dare concretezza a queste idee, si deve elaborare un progetto culturale e formativo che tenga conto di una pluralità di aspetti ed elementi, nel quale siano investite adeguate risorse, che coinvolga istituzioni e singoli, ciascuno per le proprie responsabilità e competenze: tutti convinti di condividere e di dare il proprio contributo a un obiettivo comune di vasta portata. Naturalmente, è una sfida che richiede pazienza per essere vinta ma, anche senza avere subito l’ossessione dei risultati (come diceva Martin Buber, il successo “non è uno dei nomi di Dio”), ha bisogno di essere affrontata con la continuità e la lungimiranza richieste dall’alta posta in gioco: un nuovo slancio nell’annuncio e nella testimonianza del vangelo.