Per lungo tempo è stata il simbolo della campagna anti-immigrazione di Matteo Salvini, l’emblema di quella “Milanistan” che il ministro dell’Interno ha promesso di cancellare con un colpo di spugna. Eppure via Padova è ancora al suo posto, con tutti i suoi immigrati, di ieri e di oggi, a conferirle un carattere peculiare, diverso da ogni altra parte di Milano. È vero, non è una strada facile: quattro chilometri e mezzo di colori, odori ed etnie diverse sono lì a ricordare all’efficiente capoluogo lombardo che l’integrazione è una sfida continua. I bar sono quasi tutti cinesi, i minimarket bengalesi spuntano a pochi metri l’uno dall’altro, aperti giorno e notte. Le macellerie sono appannaggio dei magrebini, che hanno rilevato anche molti forni. Spesso è l’italiano a doversi integrare, tra un ristorante sudamericano col menù in spagnolo e gli avvisi sui portoni in cinese.
Qui abitano lavoratori, prostitute, piccoli criminali, studenti, transessuali e famiglie da ogni parte del mondo. I passeggini sono ovunque. La mattina non è raro trovare qualcuno steso per terra a smaltire la sbornia. La sera i mezzi militari dell’operazione “Strade sicure” non fermano certo lo spaccio e la prostituzione, ma danno serenità a una strada che non sembra aver bisogno di dormire. Con queste persone i barconi soccorsi nel Mediterraneo hanno davvero poco a che fare, è gente a cui gli italiani hanno venduto da tempo la casa, ceduto la propria attività, il proprio pezzo di città per poi, magari, lamentarsene.
Ma via Padova in fondo non e mai cambiata ed è sempre stata un luogo di immigrazione. Anche quando non era ancora Milano, il comune di Crescenzago ospitava gli “stranieri” del primo ’900: pugliesi, calabresi, campani, siciliani, contadini emiliani e dalla bassa Padana. A ricordarlo ai molti che oggi sembrano averlo dimenticato è il film Prossima fermata via Padova. Storie di migranti del ’900 di Giulia Ciniselli, regista, montatrice e documentarista che in via Padova ha vissuto trent’anni e cresciuto i suoi tre figli. Inserito nel progetto “Volti, memorie, identità della via Padova” dell’associazione La Città del Sole - Amici del Parco Trotter, il documentario è parte integrante della rete “MilanoAttraverso” che, grazie al sostegno di Fondazione Cariplo e Fondazione Aem, intende restituire alla collettività la storia della città come centro di una rete solidale e di inclusione sociale. «Ero incuriosita dal fatto che è sempre stata una via di migranti – spiega l’autrice – una zona di confine.
Mi interessava seguire il parallelo con le migrazioni di oggi attraverso i racconti di chi le ha vissute ieri. I problemi sono gli stessi: integrazione, sfruttamento, povertà. Ma ho sentito tanto amore per questa strada. Un amore diffuso, viscerale, nonostante il degrado. In fondo è quello che sento anche io. Forse proprio perché è una zona così viva e rappresentativa di ciò che sta diventando il mondo». Il film raccoglie i racconti di chi ha visto cambiare la strada sotto i propri occhi e, nonostante tutto, non l’ha mai abbandonata. Arnaldo Gesmundo, che divenne noto come Jess il bandito dopo la rapina di via Osoppo, è uno dei testimoni di questa storia.
È nato in via Padova nel 1930, sua madre veniva da Bologna, il padre dal Meridione. «All’epoca era già un pregio avere gli zoccoli e io andavo in giro a piedi nudi – ricorda – . Imitavo i piccoli criminali della Ligera, i fannulloni delle osterie, e da loro prendevo il cattivo esempio». Il padre era un ebanista «che quando c’era il fascio non trovava lavoro». «Io li capisco gli extracomunitari – continua – . Mia madre faceva da mangiare fuori dalla finestra di casa, un negozio adibito ad abitazione illuminato dalle lampade a petrolio. Anche allora la periferia accoglieva i migranti. Tommaso, il tabaccaio, rammenta i famosi cartelli affissi sulle case su cui era scritto “non si affitta ai meridionali”. «Poi piano piano si sono integrati – dice – . I pugliesi furono i primi, ma ai calabresi andava peggio: arrivavano in pieno inverno con le magliette estive e lavoravano per 5000 lire che poi magari erano 3mila». «Conoscere le nostre paure significa anche togliersele di dosso, affrontarle ed evitare di chiudersi. Cercare di capire la realtà, anche di disagio, aiuta a vivere meglio – ragiona ancora l’autrice – . La situazione attuale, invece, è disastrosa.
Nel governo e nella mentalità diffusa avverto molta paura e molta ignoranza che l’alimenta. Non penso che si possa fermare la direzione che sta prendendo la società, quindi piuttosto che chiudersi di fronte alle sfide che pone, bisognerebbe cercare di risolverle.
La soluzione resta il lavoro delle scuole, lì c’è la base di ogni possibilità di integrazione, di accettazione dell’altro». Non mancano le storie più recenti. Grazia arrivò da Bisceglie (Bari) nel ’74 e andò a vivere con il marito in una cascina abbandonata assieme ai suoi tre figli. “Bambini meridionali” li chiamò un giorno una signora, «non dissi nulla – ricorda – ma piansi tutto il giorno». Poi pian piano si è integrata e assieme alla famiglia è riuscita a prendere un negozio che ancora esiste. Una delle poche attività che hanno resistito, come la Casa del sapone, al numero civico 70. Gianni, il proprietario, continua ad amare il suo quartiere nonostante le difficoltà: «Nel nostro palazzo gli italiani saranno al massimo una decina.
Ma almeno la via è viva. Quando mi sposto in un’altra zona, magari è più bello, ma non è la stessa cosa». La pensa così anche Evandro, che abita in via Celentano dal 1950: «Via Padova cambia continuamente è un animale che vive di vita propria. Non è una roba statica, ferma. Anche dove c’è degrado mi piace tantissimo. E’ come Milano: a tratti fa schifo, ma se sto via anche solo un giorno mi manca come l’aria. Bisogna sapersi adattare, se ci si sa adattare a via Padova si sta bene».