“Homage to Saul Steinberg” di Paolo Ventura all’Armani Silos per “Racconti Immaginari” (Courtesy of Giorgio Armani )
Ad Anghiari, in Toscana, nel granaio di una casa persa fra le colline, c’è un piccolo palcoscenico dove si raccontano storie di guerra e di magia. Come in un teatro, ma in famiglia, si costruisce un mondo magico che magicamente diventa realtà. È lì che Paolo Ventura compone le sue fiabe fotografiche attraverso scatti poetici ed essenziali. È lì che «fotografo ciò che non esiste costruendo mondi immaginari», con una cifra stilistica e narrativa tutta sua. Un fotografo “pittore” che usa la macchina fotografica e la fotografia come “strumenti”, «senza esserne appassionato», perché «è il risultato finale, è il racconto che conta». Soggetti truccati e in costume si muovono fra scenografie appositamente realizzate, in una dimensione che confonde l’irreale e il reale. Luoghi e persone che non esistono, o forse sì: nel momento in cui si fissava sulla pellicola o adesso sul display di una camera digitale, ci sono, diventano reali. Parlano, raccontano. Ed ecco che nascono le storie dell’Automa (Peliti Associati), del Mago (Mart e Danilo Montanari Editore), le Winter Stories (Contrasto) e innumerevoli Short Stories come The Vanishing Man, Red balloon, The Birdwatcher, The Man in the Suitcase. Sequenze di una inedita e curiosa forma di “fotoromanzo”. Piccole perle di magia che si possono ammirare fino al 29 luglio all’Armani Silos di Milano, il suggestivo spazio espositivo di via Bergognone – anche questo originariamente un granaio di una importante azienda internazionale – che lo stilista ha inaugurato nel 2015, in occasione dei 40 anni di carriera, per raccontare le sue collezioni dagli anni Ottanta a oggi e nello stesso tempo sostenere altri interessanti progetti culturali. «Affascinato dalla potenza narrativa» delle opere di Paolo Ventura, Giorgio Armani ospita allora la mostra Racconti immaginari: circa cento opere, tra fotografie, scenografie e alcune creazioni scelte dall’artista che permettono al visitatore di “perdersi” in un mondo dove spazio e tempo si dilatano, dove l’immaginario genera il reale; di entrare nella Città Infinita che Ventura “dipinge” a partire da Piazza Irnerio, nella sua Milano. «Ho sempre amato la città – dice Ventura – mi piace dove finisce perché si vedono bene le case, i palazzi vecchi con gli orti attorno, mi piace la città fuori dalle mura che corre come liberata, mi piace guardarla dal treno di profilo quando ci entra dentro. Mi sarebbe piaciuto abitare nella stessa città senza essere mai uscito. Da bambino pensavo fosse infinita».
Oggi l’artista si muove in un “triangolo infinito” fra Milano (la città in cui è nato, è cresciuto ed è tornato a vivere), Anghiari (dove c’è il palcoscenico del mondo immaginario) e New York (la città dove ha iniziato il suo lavoro, dove si esprime e le sue opere spiccano il volo). Anche se nelle storie di Ventura non mancano altri luoghi. Come Venezia. È qui che si muove L’automa, una storia tratta da un racconto olandese del ’500 che il padre gli raccontava spesso da piccolo: «Un uomo che costruisce un automa per tenersi compagnia». Ventura lo riambienta nel buio dello sgombero del Ghetto della città lagunare, nel 1943: l’uomo che cerca compagnia è «un vecchio ebreo». Il racconto è poetico, sotteso di malinconia, sentimento che spesso vela le sue opere, accompagnato però da un elemento onirico e fanciullesco. «Volevo costruire una Venezia che non esiste, come se ci fosse una porta in fondo a una calle che si aprisse su un quartiere in cui nessuno è mai stato. Venezia, soprattutto di notte, è un palcoscenico di un teatro prima che inizi la commedia, ti aspetti che qualcuno sposti qualcosa. Una Venezia immaginaria, ma reale. La realtà è fatta di dettagli, e lavorando ossessivamente sul dettaglio anche l’immaginario diventa reale. Alla fine… qual è la realtà?». Un viaggio sorprendente. Non senza “suitcase”, la valigia. Dove finisce il protagonista. Lui, Ventura che si traveste, si fotografa e si chiude nella valigia con le sue innumerevoli identità che si susseguono sul palcoscenico, piegato come un vestito. Un viaggio nel mondo immaginario che Ventura percorre insieme ai membri della sua famiglia, a giro co-protagonisti delle sue storie: il figlio Primo, la moglie Kim, il fratello gemello «identico» Andrea. Ed è proprio dall’esigenza o dall’«ossessione » di distinguersi dal fratello che nasce lo stile “trasformista” del fotografo nato nel 1968. «Trasformista per necessità – dice –. Nel momento in cui mi travesto, mi trasformo e non sono più me stesso. Generalmente si dice: “devi essere te stesso”. Io invece sono me stesso quando non sono me stesso, quando non mi riconosco. Perché quando hai un gemello identico è come se ne avessi cento. Perdi la tua unicità. Non essere riconosciuto è una cosa che mi ha dato sempre enormemente fastidio da bambino. Io e mio fratello eravamo “i gemelli”. Io ero “uno dei due”. La domanda che mi veniva rivolta in continuazione era: “Ma tu chi sei?”. Inteso, “tu chi sei dei due?”. Per me diventava un assoluto “tu chi sei?”. E la risposta era: “Non lo so chi sono”. È stato un continuo cercare una risposta a questa enorme domanda – conclude Ventura –. Con la fotografia l’ostacolo dell’identità ti si presenta davanti. E lì ho trovato la soluzione. Finalmente ho una mia identità, nelle mie tante identità». Immaginarie. Ma autentiche.