«Quanto pesa il dolore / sulle piccole spalle di un’anima». Sono alcuni dei versi scritti da Ezio Vendrame, l’unico vero poeta che ha sfornato il calcio italiano (o forse tutto). Da qualche anno, Vendrame, esce di rado e non risponde più neppure al telefono. Noi, in quanto “Pasolini del pallone”, lo abbiamo eletto a nostro idolo di un calcio di poesia, romantico e struggente come un suo sguardo, non ci siamo mai arresi alla sua assenza (già, «più acuta presenza», scrive Attilio Bertolucci). Così, continuiamo a lasciargli sms come fossero messaggi in bottiglia, nella speranza che qualcuno lo apra e magari risponda. Speranza finora vana. Ma noi lo facciamo con l’amore per l’amico delle notti brave, per il cantore ribelle che anche nel silenzio custodisce una sua dignità. Quella dell’altro poeta di Casarsa della Delizia, dove Vendrame è nato settant’anni fa, il 27 novembre.
Come Gianni Mura, la prima volta che l’ho incontrato aspettava al cimitero di Casarsa, davanti alla tomba del Poeta. «La gente di qui si è dimenticata di Pier Paolo Pasolini, potevano ricordarsi di me?». Disse amaro Ezio con la voce tremante e un immarcescibile senso di nausea. Un conato, come quando giocava, e prima della partita se solo ingoiava un grissino doveva correre in bagno a mettersi due dita in gola. L’unico «anoressico del pallone degli anni ’70». Vendrame e i suoi fratelli, ma figlio unico del pallone. Solo, anche in mezzo agli 80mila del San Paolo, quando passando dal Vicenza al Napoli (stagione 1974-’75) pensava di essere arrivato e sparò al direttore sportivo Janich una richiesta d’ingaggio da 20 milioni. «Il doppio di quello che mi davano al Lanerossi Vicenza », per poi scoprire che un certo Ferradini, un ragazzotto dell’Atalanta con una sola presenza in A, «ne aveva chiesti e ottenuti 60 di milioni ». Ma andava bene lo stesso.
Anche quando l’allenatore Luis Vinicio lo sbatteva fuori dai titolari, per un dribbling o una parola di troppo. «Se mi mandi in tribuna godo!», rispose Ezio a un esterrefatto “O’Lione” brasiliano. Quella risposta è diventato il titolo di un suo libro, uno della dozzina, tra saggi di un “altro calcio”, narrativa e raccolte di poesie, che ha pubblicato, anche in questi anni silenti e dolorosi. Scrivere l’ha aiutato a riempire quei quotidiani vuoti d’anima e a colmare gli anni di scuola persi. Per questo ai giovani ha sempre ricordato: «Ragazzi guai, un’alternativa ci vuole nella vita». Non si vive di solo calcio e lui lo sa. Rapito a tredici anni dall’Udinese, convittore nella casa-collegio della villa del Comuzzi dove alloggiava con un ragazzone, friulano anche lui. Dino Zoff, da Mariano del Friuli, all’epoca era «un portiere brocco in cui nessuno credeva ». Nessuno, tranne Ezio, perché lo Zoff che prendeva 7 gol dal Foggia conservò nel portafoglio per anni l’articolo della sua disfatta personale: «Quello era il segno della forza e dell’umiltà e anche se avesse fallito nel calcio, per me sarebbe rimasto sempre il numero uno, un campione del mondo». Un leader, un capitano vero, come “Totonno” Juliano che a Napoli, ama ricordare Ezio, «voleva che i giocatori dividessero sempre i premi partita anche con quei due vecchietti dei magazzinieri: gli ultimi, la bassa forza». Uomini veri e non idoli di carta come sono diventati i giocatori di adesso per colpa di un sistema marcio che lui ha abbandonato in fretta. Dopo una fuga per inseguire la musica del suo amato poeta Piero Ciampi tornò in campo, ma al popolo ottuso degli stadi che in lui voleva vedere soltanto l’eroe dribblomane con i calzettoni abbassati ricordava sprezzante: «Non sono un chirurgo che salva vite umane e nemmeno un operaio che per arrivare alla fine del mese si deve fare un mazzo grande così. Io sono fortunato ed è per questo che non vi capisco. Che cosa saranno mai queste partite di calcio. Inventatevi delle alternative...».
Le sue alternative: la poesia della Merini, i Canti Orfici di Dino Campana, «le sue parole mi scorticano dentro». E poi gli amori, le tante donne avute, inseguite e perse, alle quali prima di andare ha lasciato un biglietto sul comodino con su scritto: «Perché scannare margherite / per molestare un dubbio ». Cicatrici al cuore che non vanno più via. Non sono mica i segni alle caviglie stampati dai tacchetti del mediano del Blackpool, l’inglese Wilkins. «Quelli fanno ridere». All’ennesima zampata Ezio lo abbracciò e lo baciò: «Dopo trent’anni mi chiedo come non mi abbia più cercato dopo quel bacio sulla bocca...». Sorride melanconico, ogni sera, al buio della sua stanza, al riparo dagli ululati del mondo, anche quando ripensa a quel pomeriggio a San Siro in cui piuttosto che calciare in porta («il gol è la morte di tutto») preferì fare il tunnel al più grande dei numeri “10”, Gianni Rivera. «Ma poi gli ho chiesto scusa...». Ezio si scusa ancora per l’inciucio con l’arbitro compiuto dal Presidente del Consiglio, il vicentino Graziano Rumor: «Padre Graziano era meglio di Padre Pio», che mandò in B l’Atalanta al posto del Vicenza. Chiede scusa anche per aver solo pensato di guadagnare 7 milioni facili facili, truccando la partita in favore dell’Udinese per poi accontentarsi del solito premio vittoria del Padova: 44 mila lire e vincerla da solo quella sfida con la dignità. «Mi soffiai il naso con la bandierina e poi a quei tifosi dell’Udinese che mi insultavano gli dicevo che avrei fatto gol da lì, dal calcio d’angolo». E gol fu. Un gol alla Vendrame, la giocata folle del genio nel vecchio stadio Appiani. «Nonostante mi fossi incatenato per non farlo chiudere, l’Appiani ha chiuso al Padova... Scomparso». Come quel tifoso, che fece morire d’infarto quando si mise a smarcare i compagni e finse di segnare nella sua porta. «Mi sono convinto che si è suicidato, perché ci deve essere una ragione se un malato di cuore viene a vedere proprio me».
Incompreso. Boniperti poi lo avrebbe portato di corsa alla Juventus dell’Avvocato al quale riferì entusiasta di aver trovato il «Kempes italiano». Sogno sfumato, ma per il suo compagno di squadra nel club degli irregolari, Gianfranco Zigoni: «Ezio era più forte di Kempes. Come più forte di me, c’era solo il “Nero”... Pelè». Ezio ricambia: «A “Zigo” per quello che fece vedere a Verona dovrebbero intitolargli lo stadio ». Forse a nessuno dei due verrà mai intitolato uno stadio, neanche uno piccolo di periferia. E sarebbe un peccato. Ma non sono queste le cose della vita che fanno piangere i poeti. «Dentro una sfera, ci possono stare soltanto alcune piccole cose della vita », sospira Ezio. Quando ha smesso di dedicarsi ai giovani, la sua passione, è stato solo perché non ne poteva più di genitori follemente crudeli. Solo per smarcarsi dall’ignoranza adulta arrivò a dire: «Vorrei allenare una squadra di orfani». Ezio si è sentito padre una volta sola, con Rocco Paiero, l’amico di San Vito al Tagliamento: «Un ragazzo di una dolcezza infinita. Hanno scambiato il suo disperato bisogno di non diventare adulto, la sua smania d’amore, per un problema psichiatrico». Rovesciate, come quelle cantate dai Têtes de Bois di Andrea Satta, spiazzato dal Vendrame che scrisse: «Fino a quando il futuro apparterrà ai poeti, il profumo dei fiori sarà salvo». Ora la sua salvezza pare sia stare a distanza dai troppi “fiori del male” ma il motivo forse è questo: «Mi sento straniero ovunque io sia: una presenza passata / dove l’inutile fingeva di essere».
Compie settant’anni il più poetico e irregolare del calcio, per Boniperti «il Kempes italiano»
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