Roberto Vecchioni. Il cantautore si racconta tra l'amore per i figli e la riscoperta di Dio.
«Ho scritto diverse canzoni per i miei figli durante gli anni. Ora ho ripreso la mia memoria, mi sono ricordato momenti di dolore, di disperazione, di gioia e di respiro. E mi son detto: “Come le ho cantate male”, occorre cantarle filtrate attraverso il tempo». Ed è così che Roberto Vecchioni ha deciso di pubblicare il disco, come ci racconta, per lui più significativo, il cd Canzoni per i figli (prodotto da Danilo Mancuso per Dme) che raccoglie nove canzoni dedicate ai suoi ragazzi, Francesca, Carolina, Arrigo e Edoardo, più una poesia musicata, Che c’eri sempre, scritta alla morte di sua madre. «Ho voluto assolutamente mettere tutto quello che una madre dà a un figlio – spiega con voce che si fa tenera –. Per dire che se io sono così è grazie a lei». Il disco fa parte di un cofanetto che racchiude anche un libro, La vita che si ama. Storie di Felicità (Einaudi, pagine 168, euro 22,00), un racconto personale in cui Vecchioni fra stralci letterari da Dante a Saffo e confessioni intime, come l’amore per la moglie Daria cresciuto insieme alla loro casa di Desenzano, fino a una sua gaffe accaduta in Vaticano all’incontro con gli artisti di Benedetto XVI. Il cofanetto è stato un successo, ha venduto già 25mila copie e anche il tour gli sta dando soddisfazioni. Il cantautore, dopo aver fatto tappa ieri a Firenze, si esibirà stasera a Roma all’Auditorium Parco della Musica, il 20 aprile a Lamezia Terme ( Teatro Grandinetti), il 26 aprile a Vicenza ( Teatro Comunale), il 27 maggio a Genova ( Teatro Carlo Felice) e oltre. Sarà l’occasione per ascoltare dal vivo, quindi, brani composti in 40 anni di carriera, come Figlia, Le rose blu, Canzone da lontano, Un lungo addio, riarrangiate in chiave acustica, accompagnato dalla sua band storia: Lucio Fabbri (pianoforte e violino), Massimo Germini (Chitarra acustica), Marco Mangelli (basso) e Roberto Gualdi (batteria).
Si espone molto in prima persona in questo progetto...
«Dai riscontri che ho, credo che molti vi si riconoscano, perché è fatto col cuore. Essere padri è un mestiere complicatissimo, il maschio è sempre sprovveduto perché si crede più furbo, è incline alla non responsabilità. Per fortuna ho accanto a me mia moglie Daria. Eravamo incompiuti, siamo cresciuti insieme e siamo diventati imperfetti. Siamo diversissimi, io lascio andare le cose, lei è molto attenta, non ne fa passare una liscia. E l’educazione dei nostri figli non è stata facile per noi: io ero molto assente, sempre in giro per concerti, lei è stata il caposaldo della famiglia».
I suoi figli?
«Ho quattro figli, che sono quattro gioielli di diversità, hanno i loro difetti e hanno le loro attitudini. Hanno fatto scelte di vita anche difficili, sono forti e fantasiosi, dolci e inventivi: uno è architetto, uno giornalista, uno si occupa di linguaggio dei media. Le canzoni non le ho scritte quando sono nati, ma son venute fuori dalla voglia di scappar di casa di uno, dalla malattia di un altro...».
Sta parlando di Le rose blu, dove lei canta anche il dolore?
«Quella canzone è una storia complessa, che rappresenta bene tutto il disco, scritta nel momento in cui siamo accorti della malattia del piccolino. Ma la felicità è un convivere col dolore, con la rivincita e il superamento. Felicità è vivere anche questo, e se hai la fede, meglio ancora».
Lei è credente?
«Il mio rapporto con Dio si è intensificato negli anni. Da agnostico sono diventato un uomo di fede, ma non per necessità. La fede è arrivata dopo molti discorsi che ho fatto con persone profonde, per una intensità di sentimenti che ho visto e che non si giustifica in altro modo se non con il credere. È arrivata per la mia vita imperfetta, per la libertà della nostra esistenza che si riflette nell’imperscrutabilità della vita».
Anche la cultura le ha dato felicità?
«La cultura mi ha dato sempre felicità. Ma devo dire che sono stato felice tutta la vita. La felicità è un percorso e non un arrivo. Eppure ne ho passate. Ho avuto due cancri, tre operazioni e un infarto, ho avuto di tutto. Le cose passano».
Nel libro lei definisce la felicità una geometria.
«La felicità è la geometria stessa, non è un momento particolare, non è un cerchio perfetto, un angolo acuto, no: è il contenitore di queste cose, è un triangolo sghimbescio. È un’idea pitagorica, tutto arriva dai classici. E noi cristiani le abbiamo dato un nome: Dio».
A proposito, cosa è successo in Vaticano?
«Ero stato invitato in Vaticano all’incontro di Benedetto XVI con gli artisti dal cardinale Ravasi che è mio amico. Arrivai in ritardissimo tutto trafelato e entrando nella Cappella Sistina venni accolto da un grandissimo applauso. Per un attimo pensai fosse per me, ma alle mie spalle spuntò il Papa...».
E Francesco?
«Mi piace moltissimo e vorrei davvero conoscerlo. Prima o poi gli telefono (ride)».
Progetti?
«Ho una bella idea per un romanzo. E poi devo comporre un brano inedito, ho in testa un tema molto semplice: che i veri eroi sono le persone normali. Parlerò di persone come Alex Zanardi o Giulio Regeni, ma anche di tanta gente senza nome come l’extracomunitario che ha salvato un bambino dal fiume».
Eroi in un tempo pieno di paure...
«La paura è un altro bel tema. Leggevo un articolo su Heidegger: lui pensava che la paura è una molla particolare della società, perché serve. La sua allieva, la meravigliosa Hannah Arendt, ne ribalta il senso: la paura ce la mettono addosso quelli che vogliono dominarci come Hitler. Ho paura che la paura sia molto strumentale. Dire che io sono buono e l’altro cattivo è un modo sporco di giocare».
E la politica? Lei è stato un cantautore militante...
«Sono stato molto acceso, ho in mente la mia umanità universale latina e greca. Invece la politica di oggi, fatta di cattiverie inutili e minuzie, la trovo deprimente. Certo, quando c’è da difendere qualcuno non mi ritraggo».
Da professore, che ne pensa dei ragazzi di oggi?
«Non è il caso di parlarne male. Cambiano di generazione, ma i giovani sono lo specchio di una società. Se è arruffata e confusa, senza lavoro o senza ideali, o le assomigliano o si ribellano. Quello che manca in una società così frenetica e colpevolizzante come la nostra è l’attenzione emotiva ai giovani. Manca lo stimolo, il pungolo, l’invito a non abbattersi, ad accettare gli errori».
Soluzioni? «Sono più intelligenti di quanto eravamo noi alla loro età, hanno molti più mezzi, ma sono disordinatissimi e nessuno gli mette ordine. Bisognerebbe che tutti i giorni avessero una iniezione di cultura, di giusto, bello e vero. Che qualcuno gli dicesse di non correre senza avere una meta. Però ci sono anche dei giovani che sanno che la cultura è un’arma per difendersi con orgoglio e dignità».
E i giovani artisti? «Non vedo delle eccellenze, non ci sono più i Guccini, ma mi piacciono autori di buona qualità come Tiziano Ferro o Max Gazzé. C’è un buon livello medio tra gli artisti, specie fra la gente sconosciuta e alcuni rapper. Il rap è un genere che non va sottovalutato mai, chi lo sa far bene può dire delle cose interessanti».