domenica 29 maggio 2016
La riflessione morale fa i conti con uno sfrenato individualismo La rivendicazione dei diritti nell’età del consumismo, ha finito per far dimenticare l’aspetto del dovere e del dono. I principi sono “monetizzati”, così l’economia da scienza umana si è trasformata in pratica contabile.
La nuova borsa Valori ha bisogno di filosofia
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Tenete d’occhio la pubblicità, se volete capire come siamo messi. E anche quello che la filosofia potrebbe fare per farci uscire dall’attuale confusione. Spot che mettono al centro un individuo onnipotente oppure che invitano a lasciar perdere le scelte, perché intanto c’è sempre qualcuno o qualcos’altro (un esperto, un algoritmo) che può farle al posto nostro. Silvano Petrosino, docente alla Cattolica di Milano e direttore dell’archivio Julien Ries presso lo stesso ateneo, si accalora mentre elenca gli esempi, ma siamo solo agli inizi. Dall’area del pensiero politico il dibattito dei forum promossi da Avvenire si sposta nel territorio della riflessione filosofica, ma non per questo il ragionamento perde di concretezza. Anzi, sono proprio loro, i filosofi, ad affrontare molti argomenti da prima pagina, compreso l’inganno di un’economia che, da scienza umana, si è ormai trasformata in pratica contabile. Insieme con Petrosino e con il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, giovedì 24 maggio si sono incontrati presso la sede milanese del nostro quotidiano Carlo Sini, che per oltre trent’anni è stato professore di Filosofia teoretica alla Statale di Milano, Massimo Reichlin, ordinario di Filosofia morale all’Università Vita-Salute San Raffaele, e monsignor Pierangelo Sequeri, preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. AVVENIRE: Già negli incontri precedenti i nostri forum si sono concentrati su alcune questioni di fondo, in particolare sul contrasto fra vertigine della possibilità ed esigenza della solidarietà. In che modo la filosofia si lascia provocare da questo dilemma? Petrosino: «Cercando di disinnescare una serie di trabocchetti che, in definitiva, si riducono a un’unica, illusoria pretesa: quella per cui l’approfondirsi e l’ampliarsi del sapere renderebbe meno drammatico, se non addirittura superfluo, l’atto della decisione. Ora, noi sappiamo bene che è vero il contrario, e che con il sapere cresce semmai la responsabilità del soggetto, ma a livello di sentire comune la convinzione prevalente è un’altra. Mi informo, vengo a conoscenza di una possibilità offertami dalla tecnologia, dunque quella stessa possibilità diventa un mio diritto. Da questo punto di vista il caso della maternità surrogata è emblematico, ma niente affatto isolato. Sta diventando molto difficile contrastare il presupposto per cui qualsiasi aspetto dell’esistenza umana esigerebbe di essere riconosciuto come diritto. Essere amati, per esempio, è un diritto? È diritto un figlio? La mentalità corrente tende a rispondere di sì, come sappiamo, con le conseguenze esplosive di cui siamo ogni giorno testimoni, specie per quanto riguarda la conflittualità all’interno dei rapporti di coppia. Perché non ci sono alternative: se è mio diritto essere amato da te, il fatto che tu non mi ami è un affronto che legittima qualsiasi mia reazione». Reichlin: «Di “età dei diritti” parlava giustamente già Norberto Bobbio, più di mezzo secolo fa. In termini positivi, perché non dobbiamo dimenticare come negli ultimi decenni la formulazione dei princìpi portanti (basti pensare alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) sia stata rafforzata dall’estensione di diritti come quelli alla salute, all’educazione e via dicendo. Un quadro impensabile in altre epoche, ma che presenta anche aspetti problematici. Affermatosi in ambito giuridico e politico, il discorso sui diritti ha finito per sequestrare in sé l’intera riflessione morale, in modo da far apparire arcaica, o comunque superata e rinunciabile, l’i- stanza dei doveri. Si è persa così la reciprocità fra diritti e doveri che era strutturale nelle Carte del passato. Siamo tutti testimoni di questo processo, rispetto al quale la riflessione filosofica rimane purtroppo fortemente deficitaria. Si preferisce lasciare libero il campo a soluzioni di tipo normativo (nei confronti delle quali ci si accontenta di affermare la neutralità del pensiero) oppure a riferimenti di tipo religioso, istituendo una sorta di analogia tra fede e diritto, realtà che pertanto sembrano avere in sé il proprio fondamento. A me pare, insomma, che sui diritti, come su altri temi, la filosofia abbia operato una delega in bianco, da cui discende la trasformazione della possibilità di scelta in diritto. Le decisioni vengono prese, nel caso, in relazione a un sistema di convinzioni e di valori personali, che restano al di fuori di qualsiasi elaborazione comune. Le posizione etiche e religiose sono assunte a priori , senza che sia riconosciuta loro la facoltà di argomentazione. Ma è proprio su questo versante, credo, che la filosofia dovrebbe tornare ad agire, attingendo in maniera innovativa alla sua tradizione». Sini: «Sì, si potrebbe e anzi si deve ripartire dalla nozione di individuo, restituendole tutta la sua centralità. Sulle relazioni che intercorrono tra individuo e società è legittimo nutrire opinioni diverse, ma non c’è dubbio che il contesto in cui ci muoviamo risponda a una logica merceologica e mercificata, di cui la maternità surrogata rappresenta soltanto un’espressione, per quanto inquietante. All’individuo è subentrato l’individualismo e tutto è strumentalizzato in vista della performance. Parliamo di fenomeni che, prima ancora di essere inaccettabili, sono del tutto privi di fondamento e che si iscrivono invece nell’orizzonte di un capitalismo di mercato completamente asservito alla logica della liquidità. Mi riferisco alla liquidità in senso stretto, monetario, al titolo di credito che acquisisce valore nel momento in cui viene introdotto nel circuito del consumo, a sua volta dominato dall’arbitrio individualistico. L’esperienza ci insegna che, su questo fronte, ogni azione politica è oggi particolarmente difficile, specie su scala nazionale. A non essere più percepito, a mio avviso, è il debito sociale che ciascuno di noi contrae con la comunità di appartenenza al momento stesso della nascita. E questo non succede da adesso, non è un portato della modernità: il debito sociale esiste da centinaia di migliaia di anni, negarlo significa affidarsi a costruzioni normative infondate e arbitrarie. Qui torna in gioco la filosofia, come interrogazione radicale su che cos’è l’individuo, che cos’è l’uomo. Più che rivendicare l’universalità dei diritti, dovremmo soffermarci a ragionare sulle conseguenze delle scelte che compiamo, in una visione pragmatica che si richiami alla lezione di Peirce. Ecco, questa sulle conseguenze mi sembra la riflessione più urgente, l’unica che possa in qualche modo tornare a stabilire un limite alla presunta onnipotenza dell’autonomia individuale». Sequeri: «Il termine “individuo” è sintomatico, in effetti: ogni volta che lo pronunciasente è come se dovessimo purificarlo dal sospetto di un’alternativa al legame sociale. Come se a ciascuno di noi, per il solo fatto di essere individuo, fosse garantito un diritto all’autoreferenzialità che lo mette al riparo da qualsiasi necessità di argomentazione. Il diritto, al contrario, si rivolge a ciò che è comune negli esseri umani, altrimenti non è altro che una somma di commerci, una contrattualizzazione mercantile. Lex mercatoria, di cui la lex politica dovrebbe costituire il superamento. Quello che sto cercando di dire è che il diritto non si costituisce solo nell’ambito dello scambio, del dare e avere tra società e individuo. Non meno vincolante è il dono, mediante il quale tutti noi contribuiamo a ciò che è comune, costituendo una sorta di riserva che esiste, ed è appunto comune, anche quando non ci troviamo nella condizione di attingere a essa. Questo è il motivo per cui la cosiddetta “cultura dei diritti” e una pratica come quella dell’utero in affitto ci mettono tanto in imbarazzo. Su questo anche il pensiero teologico è chiamato in causa, non meno di quello filosofico. Non ci si può limitare a ritenere lo scambio come qualcosa di indifferente, su cui lasciar correre mentre ci si concentra sulla mistica del dono. Lo scambio ha ormai invaso l’intera società, con una pervasività che va oltre la visione tradizionale per cui il mondo degli uomini, dove è lecito commerciare, si contrappone al mondo di Dio, benedetto dalla purezza del dono. Nella situazione attuale dobbiamo semmai sottolineare il fatto che, se non contempla in sé una quota di scambio, il dono stesso è falso o, peggio ancora, dispotico. Non a caso, per la teologia perfino l’Incarnazione, dono supremo, è admirabile commercium, scambio tutt’altro che mercantile fra l’uomo e Dio. Da qui la necessità di salvaguardare quelle realtà (come l’intimità sessuale e la maternità) nelle quali lo scambio è sottratto alla deriva dispotica. Allo stesso modo, anche il dono non può che essere “ad altezza d’uomo”: si deve poter ringra- ziare, altrimenti quello che si riceve non è un vero dono, ma una concessione da parte del faraone di turno». Dalla filosofia ci stiamo spostando sempre di più verso l’economia. Come mai?  Petrosino: «Perché il capitalismo consumistico nostro contemporaneo è qualcosa di diverso e di molto più aggressivo rispetto al capitalismo industriale conosciuto da Karl Marx. La mentalità attuale si basa su tre presupposti, magari non dichiarati ma non per questo meno perentori: vendere tutto, vendere a tutti, fare in modo che tutti consumino. Un dispositivo che fa saltare qualsiasi gerarchia e per la pubblicità, infatti, l’igiene delle ascelle ha la stessa importanza di un’automobile di lusso. Qualche entusiasta potrebbe salutare questo livellamento come una conquista democratica, ma è un abbaglio già smascherato negli anni Settanta da Jean Baudrillard, un pensatore che non per niente è sempre meno letto, sempre meno studiato. Il consumismo è ormai percepito come un fatto naturale e perfettamente naturale è considerata l’assenza di limiti e di perdite. Questa è un’altra svolta determinante, dato che per tutta la tradizione filosofica e religiosa perdita e limite sono condizioni inevitabili dell’essere e non, come si pensa adesso, obiezioni all’affermazione di sé, al narcisismo esasperato e distruttivo che conosciamo fin troppo bene. Anche per questo direi che al termine “individuo” sarebbe da preferire “soggetto”, una parola che ha in sé una componente passiva, di apertura alla relazione. capace di spezzare il cerchio autoreferenziale entro cui l’“individuo” è altrimenti confinato. Il soggetto non può non commisurarsi all’altro, in una prospettiva che è anche e per certi aspetti eminentemente religiosa. In caso contrario, ci si arrende alla logica dell’individualismo, della prevaricazione, dell’eccellenza e della sopraffazione. Un’economia che voglia essere degna del suo nome, ponendosi come cura dell’oikos, della casa comune, non può non ribellarsi al riduzionismo consumistico». Reichlin: «Credo sia interessante, a questo proposito, tornare alla complessità della questione sollevata da Sequeri. Non solo per la maternità surrogata, ma anche per la fecondazione eterologa l’argomento del dono è spesso invocato come ciò che renderebbe possibile il concepimento al di fuori della coppia. Occorre intervenire in senso normativo su una materia come questa? Senza dubbio sì, a patto che la norma non discenda da un presupposto astratto, ma si ricolleghi in maniera più intuiva o anche semplicemente fenomenologica a un principio già premo nelle nostre esperienze di vita. Ipotizzo, per intenderci, un dispositivo che sottragga al regime di scambio alcuni aspetti della vita e che, come suggerisce Sini, prenda in considerazione le conseguenze delle nostre scelte, almeno fin dove queste conseguenze sono prevedibili con una certa ragionevolezza. È un esercizio di immaginazione morale, se così vogliamo definirlo, oltre che una verifica della retorica del presunto dono che ho provato a tratteggiare prima. Bisogna capire, insomma, se siamo di fronte a un vero dono oppure se questa categoria viene adoperata come copertura ideologica per uno scambio di tutt’altro genere. Petrosino fa bene a ricordare che nella parola “economia” è presente l’oikos, la casa. Nello stesso tempo, però, è presente il nomos, la norma.  I due elementi sono indispensabili l’uno all’altro, perché l’economia nasce all’interno di un progetto complessivo, di una visione articolata della realtà. Così era già per Adam Smith, che pubblica La ricchezza delle nazioni  mentre è intento alla continua revisione della Teoria dei sentimenti morali. Questo atteggiamento si ritrova oggi in alcuni autori, primo fra tutti Amartya Sen, ma in generale l’economia è diventata qualcosa di decisamente diverso. Si è assolutizzato l’elemento matematico e contabile, peraltro recente, e si è dimenticata la vocazione originaria, che permetterebbe di intervenire in modo dinamico nei processi normativi».Sini: «Non più tardi di qualche giorno fa mi è capitato di parlare con un operatore finanziario che ascoltava con sincero stupore la mia definizione dell’economia come scienza umana. Ma c’è poco da meravigliarsi, se si considera la metodica cancellazione delle implicazioni politiche dell’economia perseguita dal liberismo. Tornare a ragionare sugli strumenti, e più ancora sulle conseguenze che l’uso degli strumenti genera, significa restituire cittadinanza a uno dei cardini della nostra cultura, che è l’idea di incarnazione. Nel dono come nello scambio è sempre il corpo a essere implicato, a fare da tramite e mediazione e, quindi, a provocare una varietà di effetti. I problemi iniziano quando, come è accaduto per l’economia, un processo viene catturato dai corpi, ossia dagli strumenti ai quali fa ricorso. Detto in modo diretto, il capitalismo è stato catturato dal denaro, che pure rimane un elemento imprescindibile di ogni processo economico. Un conto però è il valore di scambio proprio della moneta, un conto è il feticcio della liquidità, che presuppone la possibilità, se non addirittura la necessità, che il denaro si moltiplichi all’infinito. Tutto questo risponde a un’esigenza pratica, perché mette al riparo da due grandi rischi: da un lato che il debito non venga restituito, dall’altro che non si dia liquidità sufficiente per incrementare la produzione. Ottimo, non fosse che così si viene a innescare un meccanismo per cui la continua circolazione del denaro ne contraddice la componente contrattuale. In linea teorica un titolo di credito può sempre essere riscosso dal portatore, ma all’atto pratico, come è avvenuto nella crisi finanziaria del 2008, arriva il momento in cui quello stesso titolo, sul quale altri hanno lucrato, perde ogni valore. E a farne le spese è il malcapitato che se lo ritrova in tasca. Per il liberista non c’è nulla di male: questa temporanea distruzione di ricchezza sarebbe  il solo modo per garantire in futuro una ricchezza ancora maggiore».Quindi, se lo scambio diventa ingannevole, non resta che appellarsi al dono?Sini: Forse si potrebbe cominciare a intervenire sull’aspetto più insidioso della moneta. Che è unità di conto, è mezzo di scambio, ma è anche (e oggi soprattutto) strumento di accumulo. È l’accumulo che va contrastato, impedendo che il denaro diventi a sua volta merce da capitalizzare. Una volta che il denaro si riduce a un bene come un altro, non c’è più nulla che possa sottrarsi al processo di mercificazione. Neppure il corpo umano, neppure il grembo materno. Se non muore questa concezione perversa del denaro, siamo noi, gli individui, a morire».Sequeri: «È il punto cruciale: in ciascuno di noi sono allocati beni destinati agli altri. O in attesa di essere destinati agli altri, se si preferisce, ma la sostanza non cambia. Uno di questi beni è appunto la facoltà di generare, un altro è la sessualità, un altro ancora il sapere, che è mai soltanto per chi lo detiene. Una delle caratteristiche dell’educazione sta esattamente nel fatto che il maestro sa sempre qualcosa in più di quello che gli servirebbe, perché il resto, il surplus della conoscenza, è destinato all’allievo che prima o poi ne avrà bisogno. Ne deriva che ogni mio utilizzo di un bene destinato agli altri comporta comunque una conseguenza sulla collettività. Sempre, anche se l’atto si consuma nel segreto di una stanza. È una versione particolarmente significativa dell’"effetto farfalla", per cui basta un niente, un battito d’ali in un continente remoto, e da noi si scatena un cataclisma. Ogni volta che intervengo su ciò che è comune all’umano, è sull’umanità intera che incido. Vogliamo essere ancora più chiari? Il problema non è che cosa accade oggi con la pratica della maternità surrogata. Il problema è che, di questo passo, fra qualche generazione, le bambine cresceranno nella piena convinzione che la gravidanza sia un servizio fornito da una parte terza».Petrosino: «Sì, ma l’orizzonte è ancora più vasto. Penso alle origini dell’istituto giubilare così come le stabilisce il Levitico. “La terra è mia”, proclama il Signore, per questo non può essere comprata e rivenduta senza conseguenze. È, come ricordava Sequeri, un bene che ha in sé qualcosa destinato all’intera comunità. Proprio per questo, più che mirare a un’irrealizzabile economia del dono, dovremmo concentrarci su forme di scambio equo, nelle quali sia contemplata una quota di gratuità».Sequeri: «Concordo sulla precisazione biblica, che aiuta a comprendere quanto perfino una questione enorme, come questa dell’utero in affitto, non sia se non un simbolo dell’epoca in cui viviamo. Si è talmente presi dall’ossessione del “chi sono” da non domandarsi più “per chi sono?”. Quanto all’equità dello scambio, ho le mie perplessità, complementari a quelle che altri possono sollevare nei confronti dell’economia del dono. In entrambi i casi si tratta di traguardi che, se assolutizzati, diventano irraggiungibili. La sfida di oggi sta nell’elaborare soluzioni che prescindano da ogni rigidità ideologica e che si prefiggano di contrastare il processo di accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi destinati a diventare pochissimi, fino a quando uno solo non sarà padrone di tutto. Sembra un paradosso, me ne rendo conto, ma il pensiero critico deve ritrovare il coraggio di affrontare il paradosso. È un compito della filosofia, ma anche della teologia. L’insegnamento di papa Francesco ci richiama continuamente alla nostra responsabilità nei confronti del mondo e questa responsabilità comporta la decostruzione di tutte le forme di narrazione collettiva inquinate dal pregiudizio dell’accumulo e del consumo. Ci sarà pure un motivo, no?, se in così tante parabole del Vangelo ricorre la tematica della moneta che deve dare frutto e, in parallelo, del debito che chiede di essere condonato».

 

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