Il gol del cileno Valdès nella "partita farsa" Cile-Urss del 21 novembre 1973
«Le guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi… per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono». Parole scolpite dal grande poeta cileno Pablo Neruda, il quale le scrisse con il cuor lacerato e l’inchiostro rosso, come il sangue dei suoi connazionali desaparecidos. Un numero forse superiore a quelli argentini (30mila vittime) eliminati sotto il regime del colonnello Videla: i desaparecidos del Cile fatti sparire dal generale Augusto Pinochet furono circa 40mila, dei quali solo 2mila sono morti accertate. Gli altri 38mila, volati via nella nulla. «Dall’Estaciòn Central partivano treni merci pieni di ruggine, di lamenti e carni ferite per Pisagua, sul Rio Mapocho, galleggiavano cadaveri che non avevano trovato pace nelle fosse comuni. Ogni cosa era sbranata a Santiago », scrive Remo Rapino (Premio Campiello 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio - minimumfax -) nel suo piccolo, quanto raro racconto Valdès (Tetra. Pagine 69. Euro 4,00). Una perla da calcio di poesia in cui Rapino dipinge il ritratto di quel Cile oltraggiato dalla dittatura attraverso la figura di un piccolo eroe esemplare del pallone: il capitano della nazionale Roja Francisco Valdés. Aveva trent’anni Francisco, quando un altro 11 settembre, del 1973, fu fatale per le sorti del Cile. E la rovesciata a cui assistette sgomento el pueblo unido non fu quella del bomber baffuto e compagno di Valdés nel Colo-Colo, Carlos Humberto Caszely, ma il rovesciamento del governo del presidente Salvador Allende. Un golpe durissimo quello di Pinochet come un’entrata assassina sulle caviglie del campione e da quel momento, fino al 1990, il dittatore seminò terrore e violenza. Santiago da quel tragico settembre di cinquant’anni fa non fu più «patria dolce dal cielo azulado» e le squadracce della morte entrarono fin dentro l’Estadio Nacional. «I prati verdi dei campi di calcio soffrivano le frenate arroganti delle camionette, l’erba ingialliva, gli spalti si riempivano di uomini giovani e vecchi, di donne spaurite, tutti guardati in cagnesco da occhi cattivi, i volti graffiati da unghie sudicie, gli spogliatoi, le stanze dell’Estadio Nacional mutarono in luoghi di tortura, maleodoranti depositi di cuori innocenti». E battevano all’impazzata anche i cuori di Francisco e Carlos il 21 novembre del ’73, che, due mesi dopo la “morte misteriosa” del poeta Neruda, erano costretti a scendere in campo in quella che è passata alla storia come la “partita fantasma”. Non era bastato il dolore e la destabilizzazione provocata dal golpe che aveva portato al suicidio di Allende (l’11 settembre si tolse la vita nel Palazzo Presidenziale) e all’instaurazione del potere totalitario di Pinochet, ora alla nazionale di calcio del Cile, toccava anche l’umiliazione di disputare una partita contro avversari inesistenti. Undici uomini contro nessuno, perché l’Urss per protesta «contro lo stato fascista cileno» aveva rifiutato di disputare la partita-spareggio per la qualificazione ai Mondiali di Germania 1974. Dopo lo 0-0 di Mosca, la federcalcio sovietica chiese alla Fifa che la gara di ritorno si giocasse in campo neutro. La Fifa rigettò la proposta russa e i calciatori dell’Urss disertarono la trasferta in Cile. Avrebbe tanto voluto disertare quella sfida assurda anche il goleador socialista Caszely, figlio di ferroviere di origine ungherese, e assieme a lui il compagno, anche di lotte, Valdés. Ma il regime fu più forte delle loro coscienze che si piegarono alla minaccia omicida di Pinochet che imperturbabile stava strangolando la meglio gioventù cilena.
Non una partita, ma una colossale farsa
«Quella partita fu una colossale farsa, una parata celebrativa del regime che con il consenso delle istituzioni calcistiche, che per la prima volta dal 1934 si piegavano platealmente agli interessi di una dittatura», annota Valerio Moggia nel suo bel saggio documentato Storia popolare dei calcio. Uno sport di esuli immigrati e lavoratori (Ultra Sport. Pagine 236. Euro 17,50). I commissari della Fifa dissero che quella partita s’aveva da fare, nonostante i russi non fossero pervenuti all’appello dell’arbitro austriaco, un residuato dell’Anschluss, il signor Erich Linemayr. La vergogna più grande, consumata nel silenzio dell’opinione pubblica internazionale, come accadrà cinque anni dopo ai Mondiali d’Argentina 1978, fu permettere che quella partita si tenesse dentro uno stadio diventato la tomba nazionale. L’orrore era lì dove si era tenuta la finale dei Mondiali di Cile ’62, su quel prato che era stato testimone delle magie realizzative di Caszely e dell’ordine e della disciplina tattica del n. 6 Valdés. Con la loro classe nel giugno di quel macabro ‘73 avevano trascinato il Colo-Colo alla prima storica finale di Coppa Libertadores, contro gli argentini dell’Indipendiente. Tra l’11 settembre e il 7 novembre del ‘73, un campo di calcio come quello del Nacional di Santiago era diventato un campo di concentramento in cui erano stati reclusi almeno 15mila cileni. La cronaca di quella partita senza avversari sta tutta nella lettera che Valdés, ormai 50enne, ex calciatore riciclatosi come impiegato di banca, scrisse a parziale risarcimento morale al suo amatissimo Poeta, Pablo Neruda. «I nostri dirigenti, su suggerimento della federazione internazionale, ci obbligarono a scendere in campo ugualmente. L’ordine era semplice: al fischio d’avvio, avremmo dovuto inscenare un’azione e fare un gol. Subito dopo l’arbitro avrebbe fischiato la fine di una partita mai disputata, il Cile avrebbe vinto e si sarebbe qualificato per i Mondiali. Mi sembrava tutto così irreale… Ero il capitano e negli spogliatoi, pochi istanti prima di andare in campo, venne il presidente della federazione cilena e mi disse: “Francisco, il gol devi segnarlo tu”. Mi sentii crollare il mondo addosso, schiacciato da una responsabilità che non avrei mai voluto sopportare. Ma non ebbi la forza di rifiutare»
Quella partita ha segnato indelebilmente Francisco e tutta la sua generazione che in quei sessanta giorni successivi al golpe sentiva di aver perso tutto e guadagnato solo una squallida qualificazione ai Mondiali tedeschi. Valdés quella lettera devota (aveva chiamato Pablo suo figlio, nato nel ’77) e affettuosa al Poeta la scrisse il 12 dicembre 1992: il giorno in cui finalmente le spoglie di Pablo Neruda tornarono nel cimitero di Isla Negra dove aveva vissuto fino all’ultimo giorno, il 23 settembre 1973. Valdés è morto nel 2009, ma ci piace pensare che quel gol che fu costretto a segnare cinquant’anni fa venne “vendicato” dal suo fraterno Carlos Caszely che ai Mondiali di Spagna calciò fuori il rigore che avrebbe permesso al Cile di non perdere contro l’Austria. Ma Carlos, a differenza degli argentini della “Coppa insanguinata” del ‘78, rifiutò di diventare l’orgoglio di Pinochet che, mentre lui era finito a giocare da “esule” in Spagna (al Levante e poi all’Espanyol) aveva arrestato e fatto torturare la madre. Per voltare pagina su questa triste storia di cuoio servono le parole di Neruda: « Altri giorni verranno e quante cose pure accadranno e crescerà senza lacrime il frumento».