mercoledì 22 maggio 2024
A Venezia e Firenze una rassegna sugli artisti moderni dell’Uzbekistan, con opere mai viste. Dopo Georgia e Ucrania continua la scoperta dei tesori custoditi dai paesi ex sovietici.
Chapan per bambini

Chapan per bambini - -

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MAURIZIO CECCHETTI
Una delle mostre più importanti sotto il profilo della conoscenza storica delle avanguardie del Novecento è stata quella che si è tenuta fino all’inizio di gennaio a Bruxelles nel Palazzo delle Belle Arti, al Bozar, col titolo The Avant-garde in Georgia: 1900-1936. Come accade ormai sempre più spesso, non appena i rapporti politici e culturali lo consentono, ecco che i magazzini delle repubbliche ex sovietiche fanno uscire decine e decine di testimonianze artistiche che, già dopo la Rivoluzione d’Ottobre, ma soprattutto dopo le repressioni staliniane a partire dal 1937, vennero occultate spegnendo di fatto la forza e la libertà degli artisti che s’ispiravano all’arte moderna e riuscivano però a esprimere anche le differenze dettate da una tradizione più antica dei loro popoli e delle loro etnie.
Sempre l’anno scorso a Madrid, al Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, si è tenuta, per di più con assoluto tempismo propagandistico, Nell’occhio del ciclone, una mostra sull’avanguardia ucraina fino al 1930, quando lo stalinismo cominciò a soffocare molte espressioni culturali dei paesi sovietizzati imponendo il “realismo socialista”. La situazione era una conseguenza di diversi fattori storici: dallo sfaldamento dell’impero zarista, alla prima guerra mondiale e, di seguito, l’avvento dei bolscevichi con la rivoluzione del 1917; nonostante la proclamazione d’indipendenza nel 1918, come avvenne anche in Georgia, l’anno dopo gli ucraini caddero sotto il giogo russo e vennero annessi all’Unione Sovietica, che con Stalin portò anche repressione intellettuale e, sul piano politico e sociale, causò la carestia che tra il 1932 e il ’33 affamò e sterminò milioni di ucraini.

Vasilij Lysenko, 'Potenze terrestri'

Vasilij Lysenko, "Potenze terrestri" - -

Non appena il muro sovietico che divideva l’Europa cadde nel 1989, in pochi anni si cominciarono a vedere i primi segni di una liberalizzazione anche nella circolazione dei tesori artistici delle repubbliche tenute in cattività da Mosca. La stessa Russia cominciò a far circolare le opere conservate nei propri importanti musei e caveaux: si ricorderà nel 1996 la mostra, voluta da Philippe Daverio (all’epoca assessore alla cultura della giunta Formentini), che portò a Milano i capolavori impressionisti e post del Museo Puškin. Raccolse mezzo milione di visitatori e certamente fece vedere a tanti, per la prima volta, opere delle avanguardie otto-novecentesche quasi mai viste. Ma le opere provenienti dal Puškin, pur se rilevanti per la nostra conoscenza, erano di autori che in Occidente andavano per la maggiore (con la moda dell’impressionismo che dura ormai da trent’anni); nel caso della Georgia, dell’Ucraina, e ora dell’Uzbekistan, si tratta invece per lo più di fondi (ricchissimi di opere) che documentano le ricerche degli artisti d’avanguardia di questi paesi, che ben pochi conoscono: quella che Silvia Burini e Giuseppe Barbieri, curatori della rassegna che si tiene in due sedi distaccate, Ca’ Foscari a Venezia (fino al 29 settembre) e Palazzo Pitti a Firenze (fino al 30 giugno), hanno voluto chiamare “Avanguardia nel deserto”, ma precisando poi il tiro con la definizione di Avanguardia Orientalis riferendosi agli artisti dell’Uzbekistan.

Vasilij Kandiskij, 'Composizione' (1920)

Vasilij Kandiskij, "Composizione" (1920) - -

Si vedono così, spesso per la prima volta in Europa, le opere degli autori che, arrivando da diverse parti dell’Unione Sovietica, scoprirono nel Turkestan (così si chiamava all’epoca quest’area che aveva come unica capitale Tashkent) un territorio ideale dell’Asia Centrale dove mettere a frutto gli stimoli che raccoglievano dall’avanguardia russa e da quelle occidentali.
Come ricorda nel catalogo della mostra Gayane Umerova – presidente della Fondazione per lo sviluppo artistico e culturale della Repubblica dell’Uzbekistan – dopo aver studiato a Mosca, San Pietroburgo, Kiev e persino a Parigi «pur rientrando nell’alveo del modernismo, le loro opere erano profondamente influenzate dalla bellezza di questa terra e dalle secolari tradizioni islamiche e pre-islamiche che ne informavano l’arte e l’architettura». Composto da russi, uzbeki, azeri, tartari, armeni e varie altre etnie, conclude Umerova, questo insieme «era espressione del dialogo interculturale che caratterizza la regione sin dai tempi della Via della Seta» (ce lo ricorda, quest’anno, anche il settimo anniversario di Marco Polo).

Ripartite secondo coppie terminologiche complementari, la mostra esplora “luce e colore” nelle settanta opere esposte a Firenze, mentre “forma e simbolo” è il tema di quelle esposte a Venezia. Non si pensi a un accrocco di parole evocative, perché ciò che ne esce è la stessa bipartizione interna al nucleo della collezione uzbeka, alla cui origine si trova il deus ex machina che rese possibile, anche patendo qualche fastidio da parte dei sovietici, l’enorme collezione oggi conservata a Nukus, nel Museo statale delle arti del Karakalpakstan, che il “Guardian” ha definito nel 2019 «The lost Louvre of Uzbekistan». Il Museo che Igor’ Savickij cominciò a comporre e che vide la luce nel 1966 somma opere d’avanguardia ma anche testimonianze archeologiche dell’antica Corasmia, nonché un’affascinante collezione di arte popolare dell’area.

A questo fa da contrappunto fondamentale il nucleo che viene dal Museo statale delle arti a Tashkent. A Firenze si sottolinea maggiormente lo scambio interculturale all’interno dell’Avanguardia del Turkestan, che ha come figure preminenti Alexandr Volkov, Viktor Ufimcev, Nikolaj Karachan, Ural Tansykbaev. Nomi che agli europei non diranno immediatamente molto, ma che furono vere forze trainanti per un insieme di artisti che, diversi spesso per formazione e retroterra culturale, stavano insieme proprio per questa sensibilità che li portava a esprimersi con forme moderne ma senza dimenticare le proprie radici in un sapere popolare di cui si colgono le tracce nelle forme decorative che vediamo su copricapi femminili, in capi di vestiario come il chapan, una sorta di cafetano uzbeko, o negli arazzi detti suzani islamici, ricamati con una tecnica raffinatissima, dove si possono vedere anche varie simbologie zoroastriane.

La sezione veneziana che somma un centinaio di opere, documenta maggiormente l’influenza dell’Avanguardia russa su quella turkmena. Un marginale ricordo che riguarda i giorni, nelle settimane scorse, in cui si andava da una mostra all’altra nelle sedi d’arte contemporanea allestite in Laguna in occasione della Biennale di Venezia: lo strillo di alcuni provenienti dalla visita alla rassegna delle opere uzbeke, invitava a farvi tappa se non altro perché si sarebbero potute ammirare quattro tele di Kandinskij “inedite”, databili fra il 1915 e il 1920. Non era affatto una esagerazione, ma si sarebbero potute aggiungere anche le opere di Rodcenko, Lentulov, Popova e altri avanguardisti se mai una mostra di questo tipo avesse avuto bisogno del richiamo ai soliti “capolavori”. In realtà, si deve ricordare che il ruolo di Kandinskij come membro fino al 1921 del Commissariato del Popolo per l’Istruzione, fu anche di far trasferire a Tashkent quelle stesse opere che oggi arricchiscono il museo.

Come scrive in catalogo Silvia Burini, se per questo patrimonio d’arte si è parlato di “Louvre nel deserto”, al di là dell’enfasi il discorso vale certamente se si considera il “deserto della memoria” che ha fatto dimenticare la ricchezza culturale e storica di queste testimonianze (basterebbero le opere tessili esposte a dirlo). Deserti e steppe, due diverse terre piane verso cui, oltre il Caucaso, si aprono i territori russo ed ex sovietici in un panorama, ha scritto Giampiero Bellingeri curando una raccolta di liriche di Volkov, «poeticamente percorso da passioni, da panmongolistiche fobie…». E come ricorda Nicoletta Misler, quel deserto non è rappresentato soltanto dal cammello, il “figlio dell’Asia” come lo definì il poeta Velimir Chlebnikov, e da aride steppe, ma «ma anche da un nuovo ritmo introdotto dal treno nel torpore assonnato dell’Asia», di cui le forme moderne della pittura, quelle di Ufimcev per esempio, a suo modo riflettono il movimento.

Ma se con gli anni Trenta le avanguardie russe finirono per essere accusate, come volle un po’ ovunque il realismo socialista, di “formalismo”, è proprio attraverso un dipinto come Donna sullo sfondo di un suzane di Robert Fal’k che, sotto la pittura e il tema raffigurato – gli antichi arazzi della tradizione popolare e sacrale – si può invece vedere come l’avanguardia abbia avuto la meglio, sul piano della memoria storica, rispetto al giogo sovietico.

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