Paula Beer, la protagonista del film “Undine”, diretto da Christian Petzold , premiata all’ultimo Festival di Berlino con l’Orso d’oro alla migliore attrice
L’amore può promettere eternità? Tra poco più di un mese, il 24 settembre, arriverà nelle sale italiane, per Europictures, Undine, vincitore dell’Orso d’oro per la migliore attrice (Paula Beer), del premio Fipresci e recentemente designato Film della critica in Italia. Nella sua linearità fiabesca e mitologica, Undine, diretto da Christian Petzold, è una grande storia d’amore che riflette l’universalità dei legami sentimentali.
Free lance che lavora nel Museo di Berlino, la protagonista è una storica che, spiegando ai visitatori lo sviluppo architettonico della capitale nell’ultimo secolo, affascina le persone con la sua capacità di racconto. È innamorata di un uomo che ha smesso di amarla per un’altra ma il futuro, anche se sembra scritto, non è mai definito. Così quando un acquario, situato nel bar dove Undine spera di trovare l’amato, si sgretola improvvisamente, riversando pesci e scaglie di vetro, Undine non è sola. Al suo fianco c’è Christoph (Frank Rogowski), un sommozzatore che le dichiara il suo amore e lei non resiste.
«Undine è una fiaba mitologica molto famosa in Germania», racconta Christian Petzold (regista conosciuto in Italia anche per La scelta di Barbara e Transit - La donna dello scrittore) che sarà nella giuria, presieduta da Cate Blanchett, della 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica. «Al di fuori della Germania la storia di Undine, una delle figlie del re del mare, è poco nota. Racconta di un uomo perdutamente innamorato di una donna che, a sua volta, non ricambia l’amore. Quest’uomo decide di andare in una foresta, perché la foresta conduce a un lago, dove lui vorrebbe porre fine alla sua vita. Ma Undine, ninfa e figlia del re del mare, vive lì, sotto la superficie del lago. L’uomo la chiama tre volte e alla fine questa bellissima ninfa esce dalle acque e gli promette di essere sua per sempre. E gli impone fedeltà dicendo: “Se mi lascerai sarò costretta a ucciderti”».
Come prosegue il mito?
«L’uomo, avendo al suo fianco questa donna bellissima, riacquista fiducia in sé stesso a tal punto che gode dell’ammirazione degli altri; perfino la donna che lo ha rifiutato se ne innamora. Lui la sposa e Undine, in ricordo della sua promessa, lo affoga in una bolla d’acqua dicendo che sono state le sue lacrime a ucciderlo. Il mito di Undine ispira il mio film e innesca questo personaggio mitologico nel presente».
Nel suo lungometraggio il lago è anche simbolo di un amore che vince la morte.
«Abbiamo girato il film vicino Wuppertal, la regione tedesca in cui sono cresciuto. Attorno a questo lago sono nati numerosi racconti, personaggi. Anche la stessa città di Berlino nasce da uno stagno, è legata all’acqua e forse per questo i berlinesi amano tanto il mito di Undine perché affonda le radici nella loro storia. Nei primi giorni delle riprese, abbiamo girato dentro il lago. Gli attori si sono immersi, dovevano muoversi nelle acque senza pronunciare alcun dialogo. Questa familiarizzazione ha influenzato la loro interpretazione per tutto il tempo delle riprese».
Ripercorrendo la sua filmografia sembra che abbia un particolare dono di inventare personaggi femminili.
«Li sento più miei. Quando ho scritto la prima sceneggiatura con il mio insegnante Harun Farocki il protagonista sarebbe dovuto essere un uomo. Ma non riuscivo ad andare avanti. Lo stesso Farocki mi ha suggerito di trasformarlo in una donna. Aveva ragione: questa è la mia cifra stilistica. Mi diceva: i personaggi femminili riescono a sopravvivere, mentre quelli maschili si limitano a vivere. E il cinema, dal mio punto di vista, è fatto di personaggi che vincono».
La “storia”, raccontata sempre nelle conseguenze sul presente, è un elemento narrativo che farà sempre parte anche dei suoi prossimi film?
«Storia e architettura sono due elementi centrali del mio cinema. Hanno per me una relazione profonda con i personaggi e con lo spettatore. Gli eventi storici, in un film, hanno la stessa temporaneità degli eventi contemporanei. Non possono diventare un elemento secondario perché influiscono sullo sguardo e sulle interazioni delle persone. Come avveniva nei film del neorealismo italiano. Tornando al nostro Paese sono convinto che il passato storico in Germania abbia influenzato la nostra capacità di accettare il male compiuto. Noi tedeschi non amiamo raccontare il nostro passato».
Sarà un giurato alla prossima edizione del Festival di Venezia. Quali sono le riflessioni che porta con sé per vivere questa manifestazione cinematografica internazionale, la prima dopo l’emergenza Covid?
«Il Lido di Venezia è un posto bellissimo per vedere il vero cinema. Sono onorato di far parte di questa giuria, sono curioso di come tutto avverrà, di quante persone potranno accedere alle sale, dei film che vedremo».
Cinque settimane fa Undine è stato distribuito in Germania: le sale erano sold out nonostante fosse trascorso del tempo da quando il film è stato presentato a febbraio alla Berlinale, pochi giorni prima della pandemia.
«Eppure nessuno a Berlino si è ammalato durante il festival. Mi viene da pensare che il cinema, la sala, siano posti sicuri. Penso (e mi auguro) che il cinema non realizzerà opere sulla pandemia, ma solo storie che aiutano a sognare»