sabato 7 settembre 2024
Nel suo nuovo film Francesca Comencini racconta la propria tossicodipendenza e la scelta del padreLuigi, che accantona la carriera registica per restarle accanto fino alla rinascita
Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano in “Il tempo che ci vuole” di Cristina Comencini

Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano in “Il tempo che ci vuole” di Cristina Comencini

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Un padre e una figlia. Il cinema e la vita. La favola luminosa dell’infanzia che si spegne nel buio di un’adolescenza ostaggio della tossicodipendenza. La caduta e la rinascita, anche grazie al cinema e a un genitore che mette da parte se stesso per non lasciare andare la sua “bambina perfetta”. Alla Mostra di Venezia arriva fuori concorso il nuovo film di Francesca Comencini, Il tempo che ci vuole, che affida a Fabrizio Gifuni e a Romana Maggiora Vergano (giovane talento scoperto grazie a C’è ancora domani di Paola Cortellesi) il racconto del proprio rapporto con il padre, il regista Luigi Comencini, per rendere omaggio all’uomo e all’artista.

Obbedendo ai meccanismi della memoria che cancella, esalta, isola ed esclude, riscrivendo la storia di ciascuno di noi, il film prodotto da Kavac Film con Rai Cinema e nelle sale con 01 Distribution il 26 settembre, si concentra su padre e figlia, lasciando fuori gli altri membri della numerosa famiglia Comencini, e ricostruisce il legame tra Francesca e Luigi attraverso alcune tappe di vita cruciali. Il risultato è un film intimo e universale al tempo stesso, che fa luce su legami affettivi nei quali chiunque può riconoscersi e su un percorso di formazione accidentato dove le fragilità di padre e figlia, accomunati dal medesimo senso di fallimento, si mescolano sul pavimento di casa, chiedendo il tempo necessario a una guarigione.

«Il film – dice la regista – si basa su quei ricordi con i quali ho vissuto tutta la vita, emersi come in un teatro sempre aperto nella mia testa. Ho acceso un cono di luce su momenti reali e sognati, mentre tutto il resto è come sfuocato, perché è così che procede la memoria nel suo lavoro di selezione». «Non è certo la prima volta che interpreto un personaggio realmente esistito – dice Gifuni –, ma non era mai accaduto che un loro familiare fosse dietro la macchina da presa. Questo film è stato un atto psicomagico».

La prima parte della storia, quella dell’infanzia, del sogno, della fantasia, è pervasa dal senso di meraviglia e stupore suscitato dal set di Pinocchio che per Francesca diventa il luogo dell’immaginazione per eccellenza. Ma a ben guardare quella storia di disobbedienza e crescita, bugie, morte e rinascita, finisce per diventare la chiave di accesso all’intero percorso della protagonista. Gifuni sostiene che la riflessione sul fallimento proposta dal film è un ottimo insegnamento per le giovani generazioni.

«In un’epoca e in una parte del mondo che ha sposato la cultura dell’essere performativi e di successo, bisogna invece liberarsi dello paura del fallimento, abbracciando vulnerabilità e lentezza». Nel film Luigi decide di accantonare per tutto il tempo necessario la propria carriera allo scopo di rimanere accanto alla figlia, che nel 1984 racconterà la sua dipendenza da stupefacenti nel suo primo film, Pianoforte.

«Gli anni Settanta – dice ancora la regista – sono stati caratterizzati da avvenimenti collettivi traumatici per quella generazione. Il clima politico molto pesante aveva cancellato la speranza, e molti sono incappati nelle droghe. Tra quelli c’ero anche io. Ma quella dipendenza non doveva essere uno stigma o una vergogna e quindi ho raccontato il mio modo di uscire a testa alta da quella situazione grazie a mio padre. Questo è forse il film che avrei sempre voluto fare da tutta la vita. Per molti anni ho cercato la mia voce e il mio percorso, ma oggi, superati i 60 anni, mi sento profondamente figlia di quell’uomo, la persona più importante della mia vita. Il film, così liberatorio per me, è un omaggio a lui e al cinema, che durante la pandemia abbiamo avuto paura di perdere e che ha invece dimostrato una grande capacità di resistenza».

Originariamente il titolo del film avrebbe dovuto essere Prima la vita e poi il cinema, uno dei grandi insegnamenti di Luigi. «Tra tutte le cose che mi ha trasmesso mio padre questa è la più decisiva. Ha fatto del cinema la sua scommessa di vita, ma non ha mai smesso di mettere gli esseri umani al primo posto, come si vede anche nel film: quando ho avuto bisogno di lui, il suo lavoro è passato in secondo piano». Francesca ha disobbedito a suo padre, che non amava i film autobiografici. «Preferisco non pensare a quello che direbbe, forse sarebbe arrabbiato, chissà. Ma credo che una delle tante missioni dell’arte sia quella di farti rimanere in compagnia di chi non c’è più. Il cinema permette di sconfiggere la morte».

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