Festeggiamenti a Milano, il 26 luglio 1943, per la caduta di Mussolini e proclamazione del governo Badoglio - WikiCommons
«Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del regno d'Albania! Ascoltate! La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia…». È il 10 giugno del 1940 e sotto il balcone di Palazzo Venezia, a Roma, la folla oceanica ascolta estasiata la voce dell’ex maestro elementare Benito Mussolini, assurto a capo del governo e duce con smanie di impero. «Un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l'accesso all'Oceano», continua il duce con logica tutta sua, e indica l’alleato: «Quando si ha un amico si marcia con lui sino in fondo. Questo faremo con la Germania, con le sue meraviglios\e Forze armate». L’arringa termina con la promessa («vinceremo») e la chiamata alle armi, cui la folla risponde con un compatto unisonante «sì!». Com’è andata a finire lo sappiamo tutti. O forse no, se – come dimostra lo storico Gianni Oliva, esperto del ‘900 e della Resistenza – «nessun manuale scolastico di storia scrive mai che l’Italia quella guerra l’ha persa. Fin dal 1945, all’indomani della fine del conflitto mondiale, abbiamo subito cercato di metterci tra i vincitori, saltando tutti insieme sul carro dei buoni, gli antifascisti», come se il Ventennio fosse stato una parentesi subìta, da cui finalmente il 25 luglio 1943 con la caduta del duce ci aveva liberati. Da qui il titolo, caustico ma realistico, dell’ultimo saggio di Oliva, “45 milioni di antifascisti”, sottotitolo “Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio” (ed. Mondadori), spinosissimo tema che l’autore porta a Gorizia al festival èStoria.
Nel suo saggio lei cita l’umorismo britannico di Winston Churchill: “In Italia fino al 25 luglio (1943) c’erano 45 milioni di fascisti, dal giorno dopo 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”.
È una fotografia reale. Dopo il 25 luglio cadono le teste della classe dirigente, Mussolini, Ciano, Pavolini e pochi altri, ma tutti i magistrati, i prefetti, i questori, gli intellettuali, i professori universitari, i giornalisti, i funzionari dell’apparato burocratico, i medici, i poteri finanziari restano dov’erano, transitano semplicemente dal prima al dopo senza pagare pegno. Improvvisamente tutto ciò che era successo prima del 25 luglio era colpa di pochi individui, ma il popolo italiano ne usciva indenne, semplicemente se ne tirava fuori. Dopo la Liberazione del 25 aprile 1945 la rimozione delle responsabilità è collettiva, le colpe sono tutte e solo di Mussolini, di dieci gerarchi eliminati a Dongo, del re poi esiliato. Basti dire che la magistratura, rimasta anch’essa quella di prima, non poté obiettivamente fare processi ai fascisti: che sentenze potrebbero emettere giudici che a loro volta hanno rappresentato la giustizia nel regime? Meglio tacere, insabbiare e attendere che il tempo confonda le carte.
In un film del 1960, “La lunga notte del ‘43”, tratto da un racconto di Bassani, un imperdibile Gino Cervi impersona il voltafaccia del fascista che nel dopoguerra si spaccia per partigiano.
Alla fine del 1943 i partigiani erano circa 18mila, mentre i volontari fascisti che partirono per Salò erano oltre 200mila, fatto comprensibile, era più ovvio per un giovane educato nella retorica del Ventennio scegliere la continuità del fascismo piuttosto che la frattura coraggiosa della Resistenza. Se poi guardiamo quanti hanno ricevuto la qualifica di partigiano finita la guerra, erano 235mila. Ma a fare domanda sono stati oltre 600mila… È evidente che c’è stato un passaggio da una posizione all’altra, molti che erano stati fascisti sono poi entrati nelle formazioni partigiane, alcuni per sincera conversione, ma moltissimi altri per puro opportunismo. Lo stesso Ferruccio Parri, capo partigiano e primo presidente del Consiglio nell’Italia repubblicana, dichiarò con amarezza che i 200mila effettivi partigiani dopo la Liberazione erano diventati mezzo milione… Se è comprensibile che l’intera classe dirigente del Paese non venisse epurata, è abbastanza indecente che un intero popolo si sia autoassolto in poche ore.
Come poté la classe dirigente transitare dal regime alla repubblica senza pagare il fio?
L’Italia del ’45 era un Paese da ricostruire e aveva bisogno delle sue istituzioni. Le faccio un esempio lampante: i professori universitari erano 1.848, nel 1931 Mussolini chiese loro di giurare fedeltà al regime e 13 ebbero il coraggio di opporsi: significa che 1.835 si accodarono immediatamente. Se avessimo dovuto epurare gli aderenti al fascismo avremmo chiuso gli atenei. Idem per i magistrati, i funzionari eccetera. Marcello Guida, questore di Milano negli anni ‘70, era stato il direttore del carcere di Ventotene quando il giovane Pertini vi era recluso da Mussolini, motivo per cui dopo la strage di piazza Fontana nel 1969 il presidente della Camera Pertini si rifiutò di stringergli la mano.
C’è un altro esempio impressionante: la figura di Gaetano Azzariti.
Azzariti è un magistrato che nell’Italia liberale, anno 1919, viene assegnato all’ufficio legislativo del ministero di Grazia e Giustizia, ovvero al settore che scrive le leggi. Con l’avvento di Mussolini viene riconfermato al suo posto e per tutto il Ventennio scrive le leggi del regime, comprese quelle razziali. Diventa addirittura presidente del Tribunale della Razza, davanti al quale gli ebrei per salvarsi devono cercare di dimostrare di non essere ebrei. Il 25 luglio 1943 cade Mussolini e ad Azzariti che succede? Il giorno successivo il re lo fa nominare ministro di Grazia e Giustizia: dovrà smontare tutto ciò che nel ventennio precedente lui stesso ha costruito. Dopo la fine del conflitto, Azzariti torna a capo dell’ufficio legislativo quando il ministro di Grazia e Giustizia è Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista, che lo promuove a suo consigliere: l’ex capo del Tribunale della Razza! A chi si mostra stupefatto, Togliatti spiega che non ha bisogno di politici ma di tecnici fedeli ed efficienti. Non è finita qui: nel 1957 diventa presidente della Corte costituzionale. Tutto questo senza che nessuno gli abbia mai chiesto di ritrattare le sue leggi razziali, né il monarchico Badoglio, né il comunista Togliatti, né il democristiano Gronchi.
Se imposta il navigatore, vede che alcune vie gli sono ancora dedicate. Credo che i residenti non sappiano chi è…
La questione della toponomastica e delle medaglie mal riposte la trovo comunque inutile. Ormai è chiaro che Tito ha commesso crimini efferati contro gli italiani e contro gli anticomunisti, ma è così importante togliergli l’Ordine al merito conferitogli dalla Repubblica Italiana in un passato lontano? Così come abrogare la cittadinanza onoraria che molti Comuni diedero al duce un secolo fa? Abbattere i fasci o coprire di vernice le scritte come “Credere, obbedire, combattere” ha senso nei momenti rivoluzionari che pongono fine a una stagione storica, ma non 80 anni dopo: lasciamo quelle scritte spiegando perché furono fatte, usiamole per educare le giovani generazioni a capire gli errori da non commettere di nuovo.
La rimozione collettiva delle responsabilità e il salto degli italiani sul carro dei vincitori sono la causa della attuale difficoltà a superare il passato e le sue contrapposizioni anacronistiche?
Certamente sì. Il passato non smette di esistere perché lo hai rimosso, anzi riemergerà più forte. Anche i tedeschi dopo la guerra hanno riciclato funzionari e politici, ma prima hanno fatto un esame di coscienza collettivo di un’intera popolazione che era stata complice, qui da noi non è successo. Abbiamo fatto finta che il fascismo lo avessimo subìto e che quindi il 25 aprile avessimo vinto la guerra. Eliminati a piazzale Loreto anche i corpi di chi era stato osannato, e mandato in esilio il re, l’Italia può riacquistare la sua integrità e dignità morale vestendo i panni della Resistenza, lei sì dignitosa e integra, ma opera di una minoranza. C’è un modo infallibile per capire se si è vinto o perso: se dopo la guerra sulla carta geografica un Paese risulta più grande di prima ha vinto, se risulta più piccolo ha perso. L’Italia dopo il 10 febbraio 1947 con il Trattato di pace di Parigi ha perso tutte le regioni adriatiche nord-orientali. Siamo stati sconfitti, ma ammetterlo avrebbe voluto dire non solo fare conti sterminati con milioni di persone andando ben oltre i dieci fucilati di Dongo, ma azzerare tutta la classe dirigente di ogni ambito e far emergere complicità infinite, oltre a dover punire gli alti gerarchi che si erano macchiati delle peggiori efferatezze in Grecia, Albania, Etiopia e soprattutto nei Balcani. L’amnistia Togliatti nel 1946 permise di rimuovere la resa dei conti della primavera 1945, ma anche la questione delle foibe e dell'esodo, e le complicità e le contraddizioni del Partito comunista. Meglio, insomma, non parlare più della storia precedente l’8 settembre, la data che ci ha messo dalla parte giusta.
Così a pagare le colpe di tutti gli italiani furono i poveri istriani, fiumani e dalmati.
Esattamente. I 300mila profughi giuliano dalmati sono coloro che hanno pagato il prezzo della nostra sconfitta nazionale, eppure non erano persone di destra o di sinistra, o lo erano esattamente come i torinesi o i romani o i palermitani. Racconto sempre il parallelo tra mia mamma e Norma Cossetto, la figura iconica del martirio delle foibe. Entrambe nacquero nel 1920, mia madre in Piemonte, Norma in Istria. Entrambe in una famiglia piccolo borghese così illuminata da far studiare le figlie. Tutte e due si diplomarono in un collegio di suore, poi affittarono una stanza per frequentare l’università, mia mamma a Torino, Norma a Padova. Mia mamma nel ‘43 si laureò, poi insegnò tutta la vita e si fece la sua bella famiglia, Norma tre mesi prima della laurea fu rapita, violentata dai titini, gettata in una foiba. Qual era la sola differenza tra loro? Che una era nata nel nord-ovest, l’altra nel nord-est d’Italia. Invece di studiare la storia recente, di cui i nostri giovani non sanno assolutamente nulla, continuiamo a parlare di “antifascismo”, ma è ridicolo ridurre oggi l'antifascismo a un titolo, a una dichiarazione astratta di principio. Dall'antifascismo è nata la Costituzione democratica (la democrazia è sempre antifascista, mentre non sempre l'antifascismo è democratico): questo significa che essere antifascisti oggi significa battersi perché i principi costituzionali siano pienamente applicati. La politica deve essere la risposta ai problemi reali sulla base dei principi scritti e condivisi nel 1948, non la richiesta di dichiarazioni ad uso mediatico.