C’è una poesia di Vittorio Sereni, intitolata Il grande amico, che recita così: «Un grande amico che sorga alto su di me / e tutto porti me nella sua luce / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi». Più che di “amico”, questa è la definizione di “maestro”. Non a caso Gustavo Zagrebelsky parte proprio da questi versi del poeta di Luino per svolgere un’approfondita riflessione sull’essenza, sul ruolo e sulla presenza dei “maestri” nella società di oggi. Lo fa in un saggio pubblicato dal Mulino, Mai più senza maestri (pagine 160, euro 14,00). L’autore, già presidente della Corte costituzionale e docente di Diritto all’Università di Torino, parte dal significato letterale del vocabolo, per riflettere su come il concetto si sia sminuito nel tempo, e specialmente in questi nostri tempi travagliati: « Magister (con i derivati: maestro, mastro, master, maître) è generato da magnus e da magis, dalla radice magh, comune nelle lingue indeuropee. Indica qualcosa di grande in tutti i sensi della parola: magno, magnifico, mago, maggio (il mese di Maia, la dea dell’abbondanza)».
E se i contestatori del ’68 avevano come slogan “Mai più maestri!”, i giovani di oggi sembrano non farsi troppi problemi a seguire e a idolatrare i “nuovi maestri” della comunità digitale, vale a dire i cosiddetti influencer. Così dal “maestro di vita” si è passati al trend setter, a chi impone mode e tendenze, soprattutto sui social, con migliaia o milioni di follower. Dobbiamo rassegnarci a questa situazione? Zagrebelsky è convinto di no, ritiene anzi doveroso, per il futuro del mondo in cui viviamo, porre al centro del dibattito «l’attività intellettuale come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e di scuotere la routine che ci avvolge». Ciò significa far capire ai ragazzi che la cultura è ancora una linfa spirituale insostituibile, è ciò che collega tra loro le generazioni, consentendo la sopravvivenza del pensiero oltre i limiti della vita biologica: come i tratti somatici si trasmettono geneticamente, così quelli spirituali si trasmettono culturalmente.
Si crede nella cultura quando si ha fiducia nel futuro; invece la cultura muore quando si dispera del futuro. L’educazione (che è il compito precipuo dei maestri) si basa su una delicata combinazione tra autorità (parola la cui etimologia va ricollegata al verbo latino augere, aumentare) e coinvolgimento emotivo. Zagrebelsky presuppone al limite anche una componente di coercizione (sarebbe ingenuo pensare che questa dimensione possa essere del tutto assente, per esempio, nel contesto scolastico), certamente equilibrata e temperata da regole condivise e da buon senso, ma bisogna sempre ricordarsi che se gli studenti non sono emotivamente coinvolti ogni sforzo risulterà alla fine vano, perché così il sapere non “passa”. Nella scuola odierna pare invece prevalere una visione sempre più “tecnica” del sapere, che finisce per trascurare la soggettività dei discenti. Aggiunge l’autore: «I tecnici fanno parte dell’establishment, i maestri no o, quantomeno, cercano di difendersene. Per questo, indubbiamente, i primi sono valorizzati, protetti, coccolati, mentre i secondi non sono ben visti e, per lo più, sono ignorati e resi innocui».
Forse a questa categoria dei maestri negletti e marginalizzati dall’attuale sistema di istruzione ascriverebbe se stesso Tiziano Gorini, docente livornese che ha composto per Armando Editore un vo- lume intitolato Il professore riluttante (pagine 128, euro 12,00), a metà tra racconto autobiografico e riflessione saggistica. Gorini spiega come oggi la scuola italiana sembri pensata (dalle varie riforme e riformine che si sono susseguite a ritmo vorticoso negli ultimi anni) per combattere ogni “pensiero divergente”, e, invece, per appiattire e omologare il più possibile gli stili didattici dei singoli insegnanti e, dunque, i profili in uscita degli studenti. Scrive l’autore: «Il pensiero divergente è un comportamento cognitivo affascinante per la creatività che esibisce, utile per la ricerca di soluzione di problemi e per l’innovazione che consente quando quelle soluzioni si dimostrino valide. Lo individuò lo psicologo Guildford negli anni Cinquanta del secolo scorso, indicandone le caratteristiche di fluidità (il numero delle idee prodotte), flessibilità (la capacità di pensare seguendo strategie inusuali) ed originalità (la formulazione di idee non conformiste); è un pensiero stravagante, che non si lascia incastrare nelle routines cognitive e nella banalità dei preconcetti, che naviga tra differenti prospettive intellettuali ed esplora lo spazio della possibilità». Gorini dà qui una definizione di che cosa significhi essere davvero maestri: non dogmatici, non settari, autorevoli ma non autoritari (con quella giusta dose di autorità di cui parlavamo prima, che si basi sull’autorevolezza e non sull’autoritarismo).
Ecco perché è giusto essere “riluttanti” rispetto a un modo di concepire la scuola (e di farla) che non aiuta né gli insegnanti né, a maggior ragione, i ragazzi. All’idea di un’istruzione non basata su un arido e sterile approccio tecnicistico, bensì fondata su solidi valori esistenziali (la cui trasmissione non può che giocarsi in uno spazio di libertà) fa riferimento il celebre filosofo, psicologo, sociologo e pedagogo tedesco Georg Simmel (1858-1918), del quale Mimesis Edizioni manda in libreria il saggio L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola (a cura di Alessandra Peluso, pagine 210, euro 16,00). Il volume raccoglie le lezioni tenute da Simmel all’Università di Strasburgo nel semestre invernale 1915-1916, che, nonostante sia passato più di un secolo, contengono intuizioni ancora validissime, quando non addirittura profetiche per quei tempi, e persino per i nostri. Simmel identifica molto chiaramente la necessità di un giusto contemperarsi di libertà e orientamento che il maestro deve offrire ai suoi allievi: «Prima di potersi creare un sentiero, occore imparare a camminare. Ma, quando si è imparato, bisogna cercarsi anche la strada. D’altro canto, la scuola deve dare una norma e formare il pensiero dichiaratamente proprio, se non corrisponde alla vera personalità o se è oggettivamente fallace».
Scendendo sul piano più concreto delle specifiche strategie didattiche, queste pagine presentano alcune indicazioni che potrebbero essere utilmente meditate nella nostra scuola, dove, per esempio nell’insegnamento dell’Italiano (ma non solo), c’è la tendenza a sottoporre gli studenti a prove sempre più strutturate e in qualche modo “ingabbiate”. Andrebbero evitate – scriveva Simmel – «temi con tracce rigorosamente determinate » e «l’adozione di contenuti preformati ed estranei allo scolaro». Queste tendenze didattiche, oggi più forti che mai, sono la conseguenza (affermava ancora Simmel) «del principio per cui l’importante è la prestazione compiuta e non l’uomo da educare». Ma se il compito della scuola fosse il primo, e non il secondo, i maestri non servirebbero più: basterebbero dei buoni computer e, per il resto, ci si potrebbe accontentare degli influencer.