Massimo Troisi - Ansa
Sono trascorsi trent’anni dall’ultimo ciak con la vita per Massimo Troisi, volato via leggero, a soli 41 anni. Era il 4 giugno del 1994, quando il suo cuore ha smesso di battere. Accadde qualche giorno dopo i saluti commossi alla troupe de Il Postino, la sua ultima interpretazione da gigante. Ma la grande anima di Napoli e del cinema, è ancora qui, specialmente nella sua terra, a San Giorgio a Cremano. Il comune dell’area metropolitana di Napoli dove era nato, il 19 febbraio 1953, e dove la sua memoria sopravvive. Il cuore delicato e purtroppo malato dell’attore che ci ha fatto ridere con la sua comicità, ironica e istintiva, e che quando ci ha lasciati abbiamo sospirato «non ci resta che piangere», batte ancora forte “A Casa di Massimo Troisi“. «Una Casa vera e non un museo, che a Massimo quella parola non sarebbe piaciuta», dice l’infaticabile Maria Falbo, vicepresidente della onlus omonima presieduta da Gigi Troisi, fratello dell’attore e regista. E ora, dinanzi, ha aperto i battenti anche una seconda dimora, la “Sala Massimino”.
«Abbiamo ritrovato un documento autografo del 1974 in cui Massimo scriveva all’allora sindaco di San Giorgio a Cremano chiedendo la possibilità di aprire una sala dedicata ai giovani per le loro attività ricreative… e così, cinquant’anni dopo anche quel suo sogno lo abbiamo realizzato e messo a disposizione dei ragazzi della nostra città», spiega Maria Falbo. Nella “Sala Massimino” si tengono incontri letterari e musicali e alle pareti è esposta una mostra permanente di scatti e ritratti di Massimo Troisi. Si va dal Massimino ( «così tutti noi, papà Alfredo, mamma Elena e gli altri cinque fratelli lo chiamavamo a casa», dice Gigi) in fasce, premiato dalla Plasmon come il “bambino più bello e più sano”, fino all’ultima fotografia scattata il giorno prima del suo viaggio solo andata nel mondo dei più, consapevole che Le vie del Signore (non) sono finite. La morte viene quotidianamente esorcizzata da oggetti privati e immagini care. Tutto qui parla solo di vita, dalle locandine dei tredici film (tra interpretati e diretti), al divano della casa romana dove gli amici, non solo di scena, Cocciante, Arbore, Verdone, Minà, Pino Daniele... andavano a trovarlo per serate che finivano sempre con una spaghettata in allegria e una chitarra per cantare tutti insieme «‘Ossaje comme fa ‘o core, je no, je no quanno s’è sbagliato...».
Serate poetiche come quei versi, conservati nella “Casa”, opera di un anonimo brasiliano e che Troisi aveva voluto tradurre in napoletano. «È una poesia che gli piaceva molto – continua Maria Falbo - e che fa capire la grande spiritualità di Massimo, che come tutti noi credenti nei momenti di sconforto chiediamo a Dio: ma perché mi hai lasciato solo? Nella poesia la risposta divina è nel finale: «Figlio tu lo sai che ti io amo e non ti ho abbandonato mai. I giorni nei quali vi è soltanto un’orma sulla sabbia sono proprio quelli in cui ti ho portato in braccio».
E quasi in braccio, gli amici di San Giorgio a Cremano dovettero prendere l’adolescente Massimo, timido e impacciato sotto quei riccioli neri, e trascinarlo per il suo debutto a sorpresa nel teatrino parrocchiale di Sant'Anna. Scagliato in scena sotto l'occhio severo, ma sempre benevolo, di don Vincenzo Brandi. «L’avevano “costretto” a recitare i suoi amici di infanzia che facevano teatro amatoriale: l‘attore Lello Arena, Peppe Borrelli, Costantino Punzo e tanti altri. Massimo aveva provato a resistere difendendosi con il suo classico «me metto scuorno» ( mi vergogno). Così dovettero minacciarlo: «Se non lo fai, non ti salutiamo più» - ricorda sorridendo Gigi - . Il fatto fu che il protagonista di quella rappresentazione teatrale si era ammalato e così Massimo dovette prendere il suo posto con molte paure e perplessità. Alla fine dello spettacolo , dopo aver ricevuto applausi e consensi, capì che forse aveva trovato il modo di vincere la sua innata timidezza».
Era il tempo in cui ancora studiava all'Istituto geometri di Torre del Greco. «Ho conosciuto alcuni suoi professori e tutti erano concordi: Massimo a scuola era un “ciuccio”, ma era di una intelligenza e di una simpatia incredibile che non potevi non volergli bene e aiutarlo ad essere promosso» racconta Gigi. Il diplomando Massimo Troisi, mantenne così la promessa fatta al padre (capotreno delle Ferrovie dello Stato) di prendere finalmente «chillu piezzo ‘e carta» e ne fece un’altra ai suoi professori: «Ve lo giuro, non farò mai il geometra, potrei combinare disastri!» Ormai il suo destino era avviato verso il mondo della commedia dell’arte, come ne Il viaggio di Capitan Fracassa (film del ‘90, diretto da Ettore Scola) , dove entrò senza santi in paradiso e tanto meno per eredità familiari.
«A dire il vero, quel suo talento naturale è anche un po’ frutto del dna dei Troisi – continua Gigi -. Mio padre aveva dieci fratelli e quando si riunivano alle feste comandante sembravano una compagnia teatrale in piena regola. Massimo assorbiva molto da loro e dalla famiglia, soprattutto da nostro fratello Vincenzo ( mancato anche lui), che aveva una comicità spontanea tale e quale alla sua. Se avesse fatto l’attore l’avremmo trovato naturale, invece Vincenzo è andato in pensione da Vigile del fuoco». Però il predestinato di casa era Massimino, che dopo il palco della chiesa di Sant’Anna, calcò quello del Teatro Spazio. Poi con Lello Arena e Enzo Decaro formarono il trio La Smorfia e andarono ad esibirsi al Teatro Sancarluccio. Ma fu al cabaret romano La Chanson che il regista Enzo Trapani li vide e nel 1977 li ingaggiò per la trasmissione di Rai1 Non stop. Un trionfo, specie per Troisi che nel 1981 (dopo lo scioglimento de La Smorfia), firma la sua prima regia con Ricomincio da tre, pellicola che decretò la nascita di una stella, luminosa e amata subito da tutti. E quell’amore del pubblico che non è stato affatto un calesse, non ha mai smesso di manifestarsi.
«“A Casa di Massimo” chiunque entra lo fa quasi in religioso silenzio e con una devozione che è stata una grande scoperta per tutti noi - racconta emozionato Gigi - . Non immaginavo quanto fosse forte questo bene che tutti continuano a volere alla sua “persona”. Mi stupisco sempre e mi commuove vedere e sentire le storie di queste persone che io non chiamo fan, ma “fedeli” , che con molta naturalezza mi confessano quanto sia stata importante la figura di mio fratello Massimo e quanto lui sia ancora presente nei loro cuori. Ho conosciuto un signore che teneva l’immaginetta di Massimo nel portafoglio come solitamente si fa per una persona di famiglia e in tanti mi dicono di averlo invocato nei momenti più difficili della loro vita. Addirittura un 40enne di Roma a cui tengo molto, prima di sottoporsi ad un intervento al cuore venne al cimitero di San Giorgio a Cremano per pregare sulla tomba di mio fratello e poi fece visita alla nostra Associazione raccontandomi la sua triste storia. Disse che aveva bisogno di sentire vicino a sé Massimo, perché questo sicuramente l’avrebbe aiutato a superare quell’intervento così delicato. L’operazione andò bene e io sono felicissimo tutte le volte che ci sentiamo telefonicamente».
È la stessa felicità, la stessa gioia di vivere, contagiosa, che emanava Massimo Troisi, da sempre l’amico dei bambini. «Non immaginate quante scolaresche vengono a far visita alla “Casa di Massimo”, così che anche loro hanno la possibilità di conoscere ed apprezzare questo nostro grande artista. Purtroppo tanti giovani non conoscono il patrimonio artistico napoletano, tanto da confondere il grande Eduardo De Filippo , con la pur brava Maria De Filippi. Però posso assicurare che appena sentono i racconti o vedono gli sketch de La Smorfia scoppiano in delle risate incredibili. Il dono più grande che possedeva Massimo era questa capacità di regalare serenità anche semplicemente con uno sguardo, con il suo sorriso».
Sfatato il luogo comune che i comici nella vita sono degli uomini tristi. «Innanzitutto a Massimo non lo considero un comico e anche lui non amava quella definizione perché diceva: “Io non scrivo mai qualcosa apposta per far ridere… poi che la gente rida è un’altra storia”. Non era mai triste, aveva quel velo di malinconia che si portava appresso dall’infanzia. Per lui era stata difficile, perché per i problemi al cuore aveva dovuto rinunciare a tante cose. Tipo, giocare a pallone. Massimo diceva spesso che per una carriera di calciatore anche di serie D avrebbe barattato tutto quello che aveva fatto da attore». A calcio poi è riuscito a giocare, perfino con il suo fraterno amico Diego Armando Maradona: partite di beneficenza per aiutare i bambini cardiopatici bisognosi di aiuto come era capitato a lui. Gesti di generosità, mai sbandierati, perché il bene sì fa ma non si dice era anche il suo comandamento.
«Il suo era un carattere timido, introverso con un pudore esagerato. Ma questi sono aspetti diffusi in tutta la nostra famiglia. Non si è mai sentito un divo, era una condizione che non accettava. Quando gli chiedevano un autografo era in imbarazzo. Dopo che aveva smesso di fare il pendolare e si era trasferito a Roma tornava a San Giorgio a Cremano solo per stare con gli amici e con la famiglia. Ma a un certo punto il successo e la popolarità divennero tali che c’era la fila fuori di casa, e così arrivava di notte e ripartiva di notte. Era un sacrificio, perché Massimo, come tutti noi, era un pigro». La pigrizia di chi si teneva alla larga dalla mondanità. Anche agli inviti televisivi, rispondeva garbatamente, ma per necessità di promozione del nuovo film o per non dispiacere un amico conduttore (Pippo Baudo e Gianni Minà, lo sapevano bene). Per il resto, preferiva starsene nella sua casa romana, tra le sue cose più care e i suoi ricordi.
«Dopo la morte di Massimo, l’ultima volta che misi piede nella sua casa a Roma accadde un fatto che mi fece capire tante cose… Sul tavolo del suo studio trovai una penna e un pezzo di carta che, sono certo, non c’erano nei giorni precedenti. Allora mi sono seduto e di getto ho cominciato a scrivere una poesia dedicata a lui e l’ho intitolata Coremalato . Non so quanto tempo sono rimasto lì seduto, non ricordavo neppure di averle scritte io quelle parole. Mi sono reso conto di quello che stavo facendo solo quando ho visto che il foglio si era bagnato di lacrime. Allora ho capito. Che Massimino nostro non è mai andato via, è solo di là, seduto nella stanza accanto».