venerdì 7 aprile 2023
In “La vita comune” il critico franco-bulgaro mette a tema l’esigenza di riconoscimento, che non sfocia nell'esibizionismo. Sulla scorta di Rousseau, Hegel, Levinas, Buber, Girard. E del Vangelo
Il critico letterario, filosofo e antropologo Tzvetan Todorov

Il critico letterario, filosofo e antropologo Tzvetan Todorov - Epa / J.L. Cereijido

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Quando nel 2010 il nostro giornale diede vita al premio Bonura per la critica militante, assegnato al Salone del libro di Torino, la scelta della giuria cadde naturale su Tzvetan Todorov, il critico letterario franco-bulgaro che da decenni aveva ampliato i propri orizzonti, lasciandosi alle spalle il formalismo critico e approdando all’antropologia, alla storia e alla filosofia. Per lui la letteratura, oltre che essere una piacevole distrazione, «permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano».

Nato a Sofia nel 1939, Todorov nel 1963 abbandonò la Bulgaria comunista e si trasferì a Parigi, dove seguì le lezioni di Roland Barthes, Per diversi anni si appassionò alla semiotica e alla filosofia del linguaggio, ma dopo i suoi primi lavori dedicati ai formalisti russi preferì concentrarsi sull’importanza dell’opera letteraria, sui suoi contenuti e non solo sullo stile. Ne è un esempio il volume La letteratura in pericolo. Non solo, il suo approccio critico si è sempre più caratterizzato, a partire dagli anni Ottanta, da un profondo discorso di natura etica. Basti pensare a titoli come La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Memoria del male tentazione del bene, Il nuovo disordine mondiale, La paura dei barbari, La bellezza salverà il mondo. In Italia è stato tradotto da Einaudi e Garzanti. Ora è Raffaello Cortina Editore a pubblicare un suo saggio uscito in Francia nel 1995 e dedicato all’antropologia, intitolato La vita comune. L’uomo è un essere sociale (Raffaello Cortina Pagine 214. Euro 14,00).

Todorov, che è scomparso nel 2017 per una grave malattia, affronta sostanzialmente due temi: il nostro rapporto con l’altro, da cui l’esistenza non può prescindere checché ne dica la lunga tradizione dei moralisti classici, e lo statuto dell’antropologia, che a suo parere – così come la sociologia e la filosofia peraltro – non può prescindere dalla letteratura, capace di scavare ancora più in profondità nelle pieghe dell’animo umano. Ma è la questione del riconoscimento a imporsi: si tratta di qualcosa cui gli esseri umani aspirano per natura, non per acquisire un rango sociale più elevato, bensì per essere accolti come membri legittimi della comunità.

Questa almeno è la versione del pensiero anglosassone, cui si contrappone quella francese che trova il suo emblema in Rousseau, il quale vede nel riconoscimento un bisogno di legittimazione, l’aspirazione a conseguire uno status di eccellenza rispetto agli altri individui. Per i filosofi tedeschi Kant e Hegel, poi, siamo di fronte alla condizione stessa dell’uomo che si costituisce come essere razionale e autonomo: nel rapporto con l’altro, l’individuo rinuncia a seguire i propri impulsi naturali esprimendo la propria capacità di comportarsi secondo le norme della ragione.

Ma a Todorov preme ribadire, partendo proprio da Rousseau, «una nuova concezione dell’uomo come essere che ha bisogno degli altri», diversamente da pensatori come Pascal e Montaigne che immettendosi nella scia degli antichi Greci considerano l’uomo un essere solitario e la relazione con l’altro come un fardello da cui alleggerirsi. Ancor più decisi in questa direzione, per cui l’essere umano è fondamentalmente egoista e negli altri vede solo dei rivali, sono stati Machiavelli e Hobbes, secondo i quali l’uomo si occupa degli altri solo in apparenza.

Nella sua disamina che vuole recuperare una linea del tutto favorevole al prossimo e che valuta l’uomo come essere sociale, Todorov si ritrova con le analisi svolte da Buber, Levinas, Taylor, Girard e Habermas, senza ignorare peraltro come nel bisogno di riconoscimento possa nascondersi un’inclinazione dei singoli alla vanteria e all’esibizionismo, che ben conosciamo nella società contemporanea. Infatti egli si domanda: «In questo testo decisivo per la tradizione occidentale che è il Vangelo non è detto esplicitamente che non dobbiamo agire “davanti agli uomini per essere da loro ammirati”, “per essere lodati dagli uomini”, ma accontentarci del fatto che nostro Padre, “che vede nel segreto”, saprà tutto e distribuirà le ricompense secondo giustizia?».

Una lezione esplicita contro il narcisismo che non contrasta affatto con la nostra necessità di fare del bene. Non a caso Todorov si richiama anche alle parole di Marek Edelman, sopravvissuto al ghetto di Varsavia, che racconta come nella tragedia della Shoah il miglior modo di salvarsi era dedicarsi ad altri: «Bisognava avere qualcuno su cui concentrare la propria vita, qualcuno per cui valesse la pena di prodigarsi».

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